29 gennaio 2009

Se la danza s’immerge nella realtà


danza contemporanea
C’è un momento in cui ogni artista percepisce con chiarezza che se davvero vuol capirsi, se veramente vuol capire il suo posto nel mondo, allora deve stare in silenzio, volgersi agli altri, ascoltarli con attenzione, schierarsi, partecipare alle battaglie degli uomini, anche a quelle piccole, forse insignificanti. In fondo tutti siamo piccoli, tutti abbiamo bisogno degli altri. Arriva il momento in cui il linguaggio specifico di un’arte non basta più: si ha bisogno di sentire le parole degli altri, sentirne il suono, sentire esattamente come gli uomini si raccontano, ascoltare il dolore restando in silenzio. Ma restare in silenzio è difficile, anzi forse è il punto più alto nella maturazione di un artista: non è afasia, ma il riconoscimento del giusto valore delle cose, del tempo, degli altri, del tempo degli altri, del proprio lavoro. Un silenzio che non è distratta chiusura ma partecipazione profonda, ricerca di autenticità. C’è un momento insomma in cui ogni vero artista smette di pensare al suo lavoro in termini di quantità e vi cerca profondità di visione, concreta saggezza, serietà della comunicazione. È in uno di questi momenti che ci sembra d’aver incontrato Loris Petrillo, uno dei più interessanti coreografi della danza italiana contemporanea: Petrillo si trova in residenza a Catania nello spazio di Scenario Pubblico, ospite, da coreografo e docente, di Robertò Zappalà. Lo abbiamo incontrato.


Loris raccontaci come s’è dipanata la tua formazione?
«Sono nato a Carpi, da mamma siciliana e papà campano. Ho vissuto a Palermo dai quattro fino ai sedici anni. Ho cominciato a studiare danza da bambino a Palermo, nella scuola del Teatro Massimo. La scuola era al Teatro di Verdura, una scuola di danza completa, vera e per di più gratuita. Ma ad un certo punto quella situazione mi stava troppo stretta. Le mie esigenze non trovavano risposta in quei luoghi e io non esitavo a contestare quanto secondo me mancava. Fu per questo motivo che fui invitato a lasciare la scuola: - stai rompendo… -, mi dissero chiaramente. Me ne andai. Feci un concorso a Roma, non lo vinsi ma mi feci notare e mi presero a lavorare in alcune compagnie romane. A un certo punto mi sono reso conto che il mio bagaglio tecnico non era abbastanza forte, volevo crescere e non restare nella media. Andai a studiare a Parigi finché non fui pronto, a parere del mio maestro, a tentare audizioni nelle migliori compagnie. Così sono restato all’estero per tredici anni ricoprendo ruoli, da solista prima e primo ballerino poi, al Ballet Royale de Vallonie in Belgio, al Goteborg Operan Ballet in Svezia, allo Stadtheatre di Berna in Svizzera e poi, in Italia, al Balletto di Toscana e al Teatro Regio di Torino. Una carriera classica fino a quando, dopo un incidente alla gamba, ho cominciato a cambiare il mio punto di vista e le mie aspettative verso la danza: non puoi contare più su un certo potenziale fisico, cambi punto di vista, cerchi il dinamismo, l’espressività, la densità del linguaggio».

danza contemporanea

Quindi l’interesse per la coreografia.
«Verso i trentatre anni s’è fatto sentire in me l’interesse per la coreografia. Mi sono messo alla prova in un concorso, l’ho vinto e il direttore artistico del Regio di Torino mi ha commissionato un primo lavoro. Ho iniziato a firmare coreografie per numerosi Teatri e compagnie. Negli anni, oltre al mestiere di coreografo mi sono dedicato alla docenza in corsi di alta formazione professionale, tra cui quelli indetti da Arteballetto, da Modem/Compagnia Zappalà e da diversi altri enti in tutta Italia. Dal 2000 sono direttore e coreografo della Compagnia Petrillo Danza oggi in residenza qui a Scenario».

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Il tuo lavoro di coreografo si caratterizza per una forte tensione verso il sociale se non addirittura politica.
«Mi sono scocciato di fare danza pura. Ho voglia di costruire e raccontare storie che tutti capiscano. Lavoro accostando alla danza l’uso della parola che meglio di ogni altra forma comunicativa rende fruibili concetti e situazioni. Tale necessità è molto evidente nel mio ultimo spettacolo “La pelle del popolo nudo”, realizzato con la collaborazione del drammaturgo Massimiliano Burini che ha scritto i testi ed è presente in scena. È uno spettacolo sulla storia (complessa, oscura, per molti versi irrisolta, spesso dolorosissima) del separatismo siciliano: un lavoro in cui danza, parola, suono si fondono in una forma di comunicazione diretta. Mi piacerebbe che la danza, la mia danza almeno, non fosse solo intrattenimento. È un’esigenza personale, profonda. Oggi trovo il mondo della danza un po’ istupidito. La danza nasce ancora oggi troppo spesso in luoghi chiusi, ovattati. È difficile oggi trovare nella danza artisti che si occupano del momento storico, delle problematiche che urgono nella contemporaneità. Desidero invece che le persone che vedono un mio lavoro possano riflettere su qualcosa: possano anche non condividere quanto penso e dico, ma in una discussione, in un vero confronto ideologico, etico e perché no anche politico, purché un scambio vero avvenga».

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Non credi che però la stessa perfezione artistica del gesto coreografico possa essere già in sé “politica” nel momento in cui sempre più la realtà diventa volgare?
«Innanzitutto non credo nella danza come forma di perfezione e, se tale perfezione si attribuisce ad un gesto coreografico, dove per gesto coreografico si intende un passo di danza, per me ne risulta una forma puramente estetica, vuota, senza valore, priva di senso comunicativo, troppo flebile per contrastare la realtà, spesso volgare è vero, che ci circonda».

Da dove trai l’ispirazione? Che ambiti della realtà di solito ti sollecitano maggiormente?
«Partendo dal presupposto che non creo una danza intesa come sequenza coreografica, ma come forma comunicativa, cerco di trovare qualcosa di necessario da dire. Traggo ispirazione in ciò che va oltre la danza e che possa stimolarmi: la terra, la storia, i rapporti sociali, gli scontri veri, gli oggetti, la scienza. Stimoli di assoluta semplicità ed autenticità».
Però il tuo è un linguaggio colto: non è solo quello della terra, della normale comunicazione.
«Provo a portare l’intenzione del corpo verso la semplicità della terra, non voglio sublimare o rendere etereo il corpo e, se si ritiene il mio linguaggio colto è proprio per questo motivo. Trovo più interessante il messaggio della terra che quello di alcune fonti di falsa e noiosa intellettualità».

Nel panorama internazionale della danza quali sono gli aspetti e le esperienze che ti interessano maggiormente?
«Tutto e tutti, tutti e non tutti: ma devo riconoscere in un’esperienza artistica, nel lavoro di un coreografo o di una compagnia, una sostanza di autenticità. Oggi tuttavia comincio ad avere qualche problema con quanto si produce nel nord Europa, pur riconoscendone - a volte, non sempre - la qualità. Credo molto nella qualità dei coreografi e dei danzatori italiani che nulla hanno da invidiare alle realtà estere ma risentono di due difficoltà fondamentali: la tipica esterofilia italiana, miope e fine a sé stessa, e lo scarso sostegno economico che oggi in Italia si dà alla cultura».
Paolo Randazzo

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