L’intelligenza artificiale è entrata nel nostro quotidiano senza preavviso, come una presenza familiare ma non ancora decifrata. Ne parliamo molto, la usiamo sempre più spesso, ma raramente ci fermiamo a pensare cosa essa stia modificando davvero: nella scrittura, nel lavoro, nel modo di pensare. Questa riflessione prova a interrogare l’AI non come tecnologia, ma come sintomo culturale – come specchio del nostro tempo, e insieme come occasione di ripensarlo.
Quella dell’AI generativa sembra la riproposizione di un copione già visto: come il “metaverso”, come la blockchain, come l’IoT, anche l’intelligenza artificiale è stata investita da un’ondata di entusiasmo mediatico e speculativo. Si è parlato di rivoluzione cognitiva, di sostituzione del lavoro umano, di sistemi più intelligenti dell’uomo. Ma a ogni picco di aspettative corrisponde un inevitabile contraccolpo. Gartner lo descrive nel suo “hype cycle” (modello ciclico che rappresenta l’andamento delle aspettative collettive intorno a una tecnologia emergente): all’ascesa euforica segue la disillusione, e poi (eventualmente) un uso più sobrio, funzionale, realistico. È il percorso che probabilmente seguirà anche l’AI: meno promesse, più integrazione. Meno hype, più governance.
L’Italia, come gran parte del mondo industrializzato, ha dimostrato spesso grande capacità di adottare e persino sviluppare tecnologie all’avanguardia. Quello che continua a mancare, tuttavia, è la cultura delle conseguenze. L’AI è solo l’ultimo caso in cui l’innovazione corre più veloce della riflessione: si implementano strumenti intelligenti in scuole, sanità, aziende, pubbliche amministrazioni, senza un’adeguata valutazione d’impatto, né un serio dibattito etico e normativo. Questa miopia sistemica – propria tanto della politica quanto del mercato – espone a rischi concreti: disinformazione automatizzata, erosione dell’autonomia decisionale, precarizzazione del lavoro cognitivo, abusi di sorveglianza, dipendenza da modelli opachi. In altre parole, le soluzioni rischiano di diventare nuovi problemi.
La storia dell’intelligenza artificiale è segnata da fasi alterne di entusiasmo e crisi. Già due volte, nel corso del Novecento, i finanziamenti si sono inariditi a seguito del mancato raggiungimento degli obiettivi promessi. Si parla allora di “AI winters”: lunghi periodi di gelo nei laboratori, di scetticismo negli ambienti accademici, di disinteresse politico ed economico. Oggi non siamo (ancora) in inverno, ma è chiaro che la sovraccarica retorica intorno all’AI – come “prossimo step dell’evoluzione umana” o “fine della creatività” – rischia di generare un effetto boomerang. Un ridimensionamento sarà necessario e forse salutare: per riportare il dibattito a terra, sul piano dei dati, degli usi concreti, delle politiche pubbliche.
In questa prospettiva, la metafora dell’“effetto Cynar” – con riferimento al celebre slogan pubblicitario “contro il logorio della vita moderna” – diventa sorprendentemente attuale. L’AI si propone infatti come una cura digitale: scrive al posto nostro, sintetizza testi, genera idee, corregge bozze, disegna immagini. Promette di semplificare, di ridurre la fatica, di liberarci dal peso dell’elaborazione quotidiana. Ma ciò che l’AI cura è anche, in parte, ciò che essa stessa contribuisce a produrre: l’ansia della produttività, la pressione della performance, il bisogno compulsivo di efficienza. Più delego alla macchina, più mi sento inadeguato; più uso lo strumento, più mi è richiesto di essere “al passo”. È un ciclo che ricorda l’assuefazione: un sollievo apparente che genera nuove dipendenze. E proprio come il Cynar, l’AI rischia di diventare una pausa che anestetizza, non un’occasione per riflettere. Un palliativo gentile che maschera un disimpegno più profondo: quello di pensare criticamente la tecnologia, e non solo usarla.
L’alternativa non è rigettare l’intelligenza artificiale, né temerla come un nuovo “demone di Maxwell”. È piuttosto maturare un rapporto adulto e razionale con questa tecnologia, riconoscendone le potenzialità senza mitizzarla, accettandone i limiti senza demonizzarla. Occorre uscire dal ciclo dell’infatuazione per entrare in una fase di progettualità consapevole. Significa investire in ricerca pubblica, costruire standard etici condivisi, regolamentare l’uso nei settori sensibili, educare cittadini e lavoratori all’uso critico dei sistemi generativi, senza relegare tutto a specialisti o giganti privati. Significa, in ultima analisi, non accontentarsi di una scorciatoia contro il logorio, ma interrogarsi sul senso di quella fatica che vogliamo delegare. L’intelligenza artificiale non è né un dio, né un placebo, né un demone. È un moltiplicatore di possibilità. Ma moltiplicare possibilità senza pensiero critico è il modo migliore per trasformare le soluzioni in nuove forme di logorio. Forse, come il Cynar, l’AI va “consumata” con moderazione, e preferibilmente al tramonto, quando è il momento di riflettere sul giorno che abbiamo vissuto. E su quello che vogliamo costruire.
Giovanni Di Trapani
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