Innamorato dell’improvvisazione e della creazione artistica potenzialmente in tutte le sue forme, convinto che le differenze e le analogie siano solo nei percorsi personali e nei transiti tra (e oltre) i generi e non nelle caselle che ci si trova a occupare, a trentasei anni inizia a tirare le fila di ciò che lo ha sempre mosso e occupato in ambito artistico, filosofico, antropologico, di spiritualità, pur essendo ateo. Crede come Wilhelm Dilthey in un circolo ermeneutico tra idee ed esperienze, e che la loro ridefinizione sia un compito costante e doveroso; si rapporta con tutto quanto rimandi all’idea di una costante costruzione del proprio sé individuale e sociale. Ritiene indispensabile confrontarsi con chi fa dell’arte un corpo senza opera e del pensiero che si pone costantemente in relazione con il non certo, il non acquisito. Avendo ingrossato le fila del precariato, si è accorto che è nell’incertezza, come afferma Jodorowski, che vanno cercate le prove della propria capacità di tenuta nel reale. Sostiene infine che il multiculturalismo, in senso lato, produce soggettività e che l’assolutismo identitario è la più grave mancanza di responsabilità nei confronti del presente.