13 maggio 2011

La lingua che noi siamo: Zagrebelsky


Sulla lingua del tempo presente

Attraverso un breve resoconto «Sulla lingua del tempo presente», Zagrebelsky riflette e fa riflettere su quanto la lingua possa essere molto più di un insieme di segni linguistici. Ci aiuta a comprendere la funzione che si nasconde dietro il mero atto naturale del parlare. Ecco, allora che il parlare non è più, solo, un portare qualcosa da dentro a fuori, ma al contrario è anche il processo opposto: si porta qualcosa di detto fuori, dentro di noi. Questo portare fuori verso la nostra interiorità può essere molto più di un processo passivo e improduttivo. Accogliere un significato linguistico al quale siamo sottoposti reiteratamente, cambia, lentamente, la coscienza individuale e, a seconda degli strumenti massmediatici utilizzati, quella di una intera comunità linguistica o, anche, della massa. Dal pensiero nasce la parola e quest’ultima rappresenta il pensiero, la capacità pensante di chi la porta fuori. Ma la parola può essere anche un’arma che in tempo di guerra può nascondere insidie ed essere inautentica, asservita a chi vuole asservire. Ma la parola è altresì la dimostrazione che si è liberi di esprimersi, sempre. 

Un grido composto, ma tagliente ed acuto, è dunque quello che proviene dalla sensibilità di uno dei più grandi interpreti della crisi dei nostri giorni, nonché costituzionalista di professione: Gustavo Zagrebelsky.


Partendo dal concreto effetto della lingua, come oggi viene utilizzata ai fini di una occulta propaganda volta all’omologazione del linguaggio e della coscienza, il grido di Zagrebelsky è la versione esplicita e meno poetica di quel processo di manipolazione umana che parte degli intellettuali raccontano nelle opere e nei loro studi. Il linguaggio diventa, secondo una attenta riflessione del giudice pensatore, il teatro delle azioni dei regimi e del potente di turno, in grado di operare una sottile e perseverante manipolazione del linguaggio fino a giungere il midollo delle teste pensanti, che sempre noi siamo. Cambiare la lingua significa, dunque, non solo introdurre nuovi concetti o parole in sintonia con la realtà alla quale la lingua pure deve aderire. Significa altresì trasformare, fare opera di convincimento su come interpretare la realtà, passando attraverso il labirinto della psicologia linguistica e l’annientamento del significato conforme delle parole sempre esistenti.

La malattia dell’Occidente trova massima espressione, nel tempio della lingua italiana, nel privato quanto nel pubblico. Nel privato la mortificazione linguistica, manifestazione di un cedimento culturale, è caratterizzata da un repertorio concettuale scarno e dalla mancanza di conoscenza di termini specifici o lievemente più ricercati. Poi c’è il lato pubblico della questione che, come spiega anche Zagrebelsky, racconta quello che siamo diventati: ossia un popolo stretto nella superficialità e nella sciatteria del “kitsch” e dello “stereotipato”, espressione di una eguale negligenza del nostro modo di essere.

La riflessione di Zagrebelsky sull’utilizzo linguistico nel nostro tempo di parole e aggettivi che hanno costituito le Mot di tante propagande politiche, non si discosta da una raccolta di scritti formanti un testo molto interessante a cura di Massimiliano Spano e Daniele Vinci L’uomo e la parola. Non a caso nella raccolta vengono ripresi grandi pensatori, filosofi (Jaspers, Heidegger, Rosenzweig, Ebner ed altri) che nella lingua, nell’atto del parlare, hanno intravisto un atto complesso e dunque il più originario e proprio dell’uomo. L’uso linguistico non è solo un modo di determinare la propria esistenza attraverso la comunicazione (è infatti a partire dal momento in cui si esiste che si comunica). Nel sistema di interazione degli individui è possibile riconoscere anche una possibile chiave della manipolazione estetica – quest’ultima intesa qui come arte del parlare, quindi di retorica -. Ma non solo, è nella parola che si cela l’impraticabilità dell’essere, mentre è nel silenzio, nel mero atto del pensare che si attua un riconoscimento di ciò che non può essere spiegato, e che pure è più tangibile e più palese del reale.

Così, la semplice ripetizione di un sostantivo il cui significato era noto a tutti, può trasformarsi in una trappola linguistica con effetti sul normale ruolo che il linguaggio adempie. In altre parole l’essenza, il contenuto di un termine, che è sempre dato da una esperienza diretta del parlante che lo utilizza, viene deformato a livello inconscio, tanto che qui si tratterebbe piuttosto di un ambito psicologico-linguistico. La caduta verso il basso che l’Occidente starebbe inesorabilmente attraversando, passa soprattutto attraverso il diverso modo di utilizzare il linguaggio. Non a caso Zagrebelsky cita in apertura del suo lavoro, una riflessione heideggeriana sulla lingua come «casa dell’essere». Riprendendo, dunque, quel pensiero filosofico che ha sempre osservato il tramonto dell’Occidente, Zagrebelsky mette in luce quanto la mortificazione ontologica dell’uomo, cioè del suo essere, si esprima nella povertà e nell’utilizzo arbitrario e non più saldo della lingua che vorrebbe portare fuori la verità, o anche la verità dell’essere, si potrebbe ora dire. La lingua è in pericolo perché è lo stesso sistema democratico ad esserlo, e con esso l’integrità dell’uomo e del suo essere.

Partire dalla crisi del linguaggio che oggi ci caratterizza, significa riconoscere «la crisi della ragione che ha segnato il pensiero del Novecento e che si è tramutata in crisi dell’umano» (A cura di Massimiliano Spano-Daniele Vinci, L’uomo e la parola, il ponte di Giacobbe, Trapani 2007, cit. p. 10). Riconoscere la nostra essenza risulta essere un processo che passa attraverso la riflessione semantica del parlante che in quanto tale è il custode della cultura che egli porta dentro di sé. Ogni lingua è la sua cultura ed è nella crisi del linguaggio che è possibile misurare il grado di sanità di ogni cultura. Non indignarsi dinanzi all’utilizzo arbitrario e non rispettoso delle parole, quello di chi, per intenderci, parla di amore e di giustizia e nei fatti pratica l’odio e l’ingiustizia, è il primo grande colpo inferto alla nostra società, nonché alla nostra libertà.


Nessun commento: