18 novembre 2021

Giovanni Pascoli e i suoi “doppi”: l'epilogo del pater-puer

Primo dicembre 1907: “Il Marzocco” pubblica il Diario autunnale. Il ticchettio del tempo incombe, come la fine ansiosa di un’estate, sul poeta prostrato dalla vita e dall’alcol, unico antidoto alla tristezza di un’anima triste. Come le caotiche facce di un cubo di Rubik, gli anni si confondono lungo una cortina di vaghezza e di ricordi, sempre sotto l’incontrastato dominio della figura paterna, immobile, attonita sotto il cielo stellato e piangente di San Lorenzo. È tornato, per l’ultima volta, lungo i sentieri della memoria. È a casa. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1907, Giovannino vuole levarsi il capriccio. Decide di passare la notte nella vecchia tenuta dei Torlonia, lì dove tutto ebbe inizio, l’incipit della fine, adesso che troppe cose sono successe. Il puer, che in quei luoghi ha smesso di essere bambino, indugia sulla porta e, nell’indefinibile incalzare dell’oscurità, tra immobilità e reazione, rivede il suo nido. 

L’estate di San Lorenzo si è portata via il fanciullo e, in una sorta di compiaciuta narrativa del dramma, nella stagione autunnale, con le sue foglie invecchiate e impaurite e le trame stecchite dentro il sospiro degli alberi, si avverte – ora più forte – la sinestesia del mondo dei morti. L’udito si fa desto nel verso ridondante di un assiuolo, guardiano della notte e custode dell’arcano, messaggero di un’eternità dalla porta socchiusa, dove il linguaggio del fanciullino è forse in grado di decodificare le voci di chi non è più. I colori caldi del giallo e dell’arancio mitigano il verde dell’erba alta che nasce sopra le fosse, nell’ora che penso ai miei cari. Ovunque, si sparge l’odore di pioggia e di muffa. Il paesaggio crepuscolare, per l’ennesima volta nell’esperienza biografica e letteraria pascoliana, assume connotazioni ai limiti del simbolismo, che nel Diario autunnale si condensano in una complessità già nota, che ha perso ogni freschezza, vicina all’epifora della sua poetica. La simmetria circolare del puer/pater e del pater/puer sta per chiudersi e, come in una quête illusoria e inappagata, il poeta ha girato in tondo, da puer a pater, da pater a puer, senza essere mai completamente né l’uno né altro, se non in un morboso gioco di ruoli dal carattere osmotico e inconcluso. L’ouverture diaristica semina una staticità che conduce al passato, ma che si rianima in una moltitudine di sensazioni che affermano una straordinaria identità presente, confondendo le stagioni della vita nell’immutabilità dei sentimenti. E tale mancanza di mutevolezza e di progressione trova una peculiare corrispondenza nella regia narrativa che si ferma sul foglio, evita la crescita, non progredisce con il progredire della versificazione. Si disperde in ripetizioni, anafore, modulazioni dello stesso campo semantico, in cui il carattere ellittico la fa da padrone, dove la sinestesia impera, eliminando ogni brandello di ricerca razionale, esaurendo il racconto del ricordo nella sensazione del ”notturno”. 

Torre di San Mauro
Notte dal 9 al 10 novembre.
Dormiii sopra la chiesa della Torre.
Cantar, la notte, udii soave e piano.
Udii, tra sonno e sonno, voci e passi,
e tintinnare il campanello d’oro,
ed un fruscìo di pii bisbigli bassi,
ed un ronzìo d’alte preghiere in coro,
ed una gloria all’organo canoro,
che dileguava a sospirar lontano,

A sospirar così soave e piano!
Era una messa. Santo! Santo! Santo!

Le anafore (ed) si infrangono continuamente lungo gli argini velati di verbi evocativi che si caricano di pathos sotto l’incedere lento di percezioni sensoriale che de-costruiscono la memoria attraverso suoni onomatopeici (tintinnare, fruscìo, ronzìo), antitetici (pii bisbigli bassi) e voci di preghiera che preannunciano l’epifania di una messa, ma una messa dei morti:

Ma eran voci morte che cantare
Udii la notte fino sul mattino:

È la notte della resa dei conti, della battaglia finale, forse della disfatta. Il tono della narrazione autodiegetica è latente e, come in un incastro di specchi, il poeta si rivede nell’immagine, inquietante e prevedibile, del “bimbo morto”. È lui, è Giovannino che nel Ritorno sedeva ancora sul ciglio dello stradone, in bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma che qui, nel Diario, ha varcato la soglia del cimitero:

un bimbo morto ritto sul gradino,
con su le spalle il suo lenzuol di lino
in che l’avvolse la sua madre in pianto.

Nell’espediente dell’onirismo (tra sonno e sonno), l’autore prova a concludere la sua esperienza poetica, che è stata, dopotutto, la riproduzione ritrattistica di un uomo infelice. Tuttavia, nel Diario autunnale, sembra concretizzarsi una sorta di ulteriore regressione linguistica del “fanciullino”, come se la sublimità dell’incontro con i propri cari defunti portasse al totale annientamento delle vie analitiche per approdare, nell’esasperazione del dualismo antitetico pascoliano, all’inatteso e sbigottito incontro tra la culla e la morte. Il puer Giovannino incontra il pater morto e, per comunicare con lui, deve del tutto abbandonare il linguaggio dei vivi. Il registro stilistico si pone qui, nel luogo dei defunti, fuori e dentro, prima e dopo la lingua grammaticale e si fa ridondanza, balbettio, rumore. Le singole parole scivolano verso il mistero e l’evocazione. Il poeta non parla, ma ascolta. È come se l’intonaco delle abitudini linguistiche si fosse frantumato sotto il fardello di un ritorno alle origini che porta, per naturale contrapposizione, al finale, all’incontro con la propria famiglia, al nido rincorso per un’intera esistenza e miracolosamente ritrovato nello spazio di una notte. Nella malinconia dell’autunno, le foglie secche celebrate dal Pascoli nella poesia diventano l’unico correlativo oggettivo di finis rerum. Il dado è tratto, i giochi sono fatti. La consapevolezza del tempo trascorso troppo in fretta, descritto attraverso l’ellissi del salto temporale, si evidenzia nel Siamo di dopo!... che chiude i versi sofferti, ma lascia aperta la dialettica del dolore mediante la reticenza, quei tre puntini sospensivi che racchiudono l’orizzonte interiore di uno dei più grandi autori della nostra Letteratura. 

La sonorità del buio che avvolge la Torre di San Mauro accompagna gli ultimi tortuosi sentieri del passaggio pascoliano in questo mondo. Immagino i suoi pensieri di congedo, mi fingo spettatrice del suo estremo saluto. Le scarpe gialle troppo strette sono ancora lì, nella stanza Mariù piange. Ho conosciuto il poeta, ho amato l’uomo. È il 6 aprile 1912. È primavera. Sulla scrivania, giace ignorato il Diario autunnale

Linda Ciano

Parte seconda

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