13 settembre 2022

Dorothy Parker, la fustigatrice viziosa (seconda parte)

 

Quella maledetta ebrea
The brightest girl in new York (La più brillante ragazza di New York)
Edmund Wilson – critico di «Vanity Fair»

Nonostante la triste esperienza matrimoniale, la carriera di Dottie a «Vanity Fair» decollò senza ostacoli, amata e odiata in egual misura, incuteva molto timore nel mondo dello spettacolo; era spregiudicata, pungente, un’intellettuale loquace, eccentrica, una giornalista mondana che si rammaricava un po' per non essere ancora riuscita a scrivere un romanzo, sebbene fosse consapevole dei suoi limiti: “Sono una scrittrice a breve distanza, inutile che provi a fare le mille miglia”. Nei suoi scritti, caratterizzati da uno stile elegante e arguto, traspariva comunque una nota malinconica, dal suono talvolta più nitido e intelligibile delle altre. Era perennemente insoddisfatta e cinica, spesso autoironica; l’interprete di un’epoca detta l’età del Jazz

Dottie aveva la triste abitudine di sparlare di tutto e di tutti, con un umorismo spietato e paradossale, senza preoccuparsi delle conseguenze, e per le sue irriverenti battute, che suscitavano ilarità ma anche livore, venne considerata: “La donna più spiritosa di New York” (e probabilmente anche la più antipatica). Tra le sue intime passioni intellettuali, più delicate e infantili, vi era l’amore per le filastrocche, motivato forse, dalla sua infanzia solitaria e dall’innato senso materno che però non riuscì a soddisfare, anche a causa della sua inettitudine. Molto gradevole e divertente è quella dal titolo Sintomi, tratta dalla raccolta Tanto per vivere: 

Non sopporto il mio stato mentale:
sono scontenta, garrula, asociale.
Odio i miei piedi, odio le mie mani,
non m’interessano i lidi lontani.
Temo il mattino; la luce del giorno;
odio la notte, al letto far ritorno.
Maledico chi agisce onestamente
non tollero lo scherzo, più innocente.
Non mi appagano un quadro, una lettura:
per me il mondo è soltanto spazzatura.
Sono cinica, vuota, scombinata.
Non so come non mi abbiano arrestata
per quel che penso. I vecchi sogni andati,
l’anima a pezzi, i sensi torturati.
Non mi è chiaro nemmeno come sto
ma certo non mi piaccio neanche un po'.
E litigo, cavillo, gemendo di paura:
penso alla morte, alla mia sepoltura.
L’idea di un uomo mi lascia sconvolta…
Sto per innamorarmi un’altra volta

Nei brevi itinerari dei suoi racconti, delle poesie e delle filastrocche, si colgono l’ambiguità, la frustrazione, l’insicurezza e le illusioni di una società contraddittoria, che Dorothy Parker disprezzava energicamente, sebbene manifestasse, nel suo animo, le stesse ipocrisie esistenziali. Entrambe erano attraversate da sentimenti equivoci; ammantate di buoni propositi e devastate da selvagge pretese. Le sue opere sono pervase da un continuo e crescente polimorfismo, in cui i caratteri e la forma differiscono, collidono, si intersecano e si rincorrono, senza soluzione di continuità. Il linguaggio e la struttura letteraria sono camaleontiche, inafferrabili, schiuse o occulte, secondo il fermento creativo che infiammava, di volta in volta, l’autrice. Si è parlato, in alcuni casi, di glossolalìa, soprattutto per le sue filastrocche, insensate, irridenti, ammorbate da un certo infantilismo, in cui le parole assumono significati sostanzialmente diversi da quelli ordinari, in un ludico e grossolano delirio, generatore di forme criptiche, indecifrabili, che potrebbero suggerire uno stato di psicopatìa isterica, da cui la Parker pareva non essere del tutto immune. Nella loro musicalità terapeutica ella ritrovava una sorta di quietismo ancestrale, fonte di benessere, l’humus ideale per il ristabilimento di un temporaneo, e quanto mai effimero, equilibrio. Tra i temi più frequenti, nei racconti e soprattutto nelle poesie, vi fu l’elogio del suicidio (che la sfiorò  per ben tre volte nella vita) che la donna affrontò con un umorismo crudo e lacerante, ispirandosi forse a quel più illustre elogio della follia che Erasmo da Rotterdam scrisse nel 1509, in cui la stessa follia giustifica se stessa, dichiarando di essere stata allevata dall’ignoranza e dall’ubriachezza e di accompagnarsi costantemente ai fedeli compagni della vanità, della dimenticanza, dell’accidia, del piacere, della demenza, della licenziosità, dell’intemperanza e del sonno mortale, che ella costantemente inseguì, lungo la dorata e attraente via del successo, spronata ad applaudire, a vivere e a bere. Altro argomento, di pregnante impatto emotivo, che ritorna, sistematicamente, nei suoi scritti, riguardava i frequenti fallimenti di cuore, su cui non disdegnò calcare la mano, attraverso un feroce e arroventato umorismo, di cui l’altro sesso fu, ovviamente, l’ineluttabile bersaglio. A proposito degli uomini in generale, una volta disse: “Mi rattristano, quando non mi stancano”. La sua scrittura fu  sempre lucida, anche se talvolta obnubilata dall’alcool e dalle droghe, riuscendo comunque a mantenersi fedele al suo spirito originario, che rifuggiva la banalità e i servili e ossequiosi accomodamenti. In più occasioni, puntò il suo dito accusatore contro il bieco razzismo che imperversava nel suo Paese, come testimonia  l’emblematico racconto Arrangement in black and white - Composizione in bianco e nero – ed espresse anche il suo accorato disappunto sul dramma della povertà che si stava diffondendo, a macchia d’olio, negli Stati Uniti a causa della depressione, nel racconto Clothe the naked - Vestire gli ignudi – in cui rimarcò nuovamente il tema del razzismo. 

Com’era possibile che gli Stati Uniti, una società ricca, liberista e democratica, che, con sussiego, aveva la pretesa di esaltare il sogno americano di un benessere diffuso, continuasse a segregare gli afro-americani (che già all’epoca, rappresentavano una percentuale consistente della popolazione attiva) senza preoccuparsi, tra l’altro, dei gravosi problemi causati dalla crescita indiscriminata della povertà, e della disoccupazione, che stavano affliggendo la società civile e, con essa, milioni di cittadini americani? Pretendendo poi, ipocritamente, di esportare nel mondo i princìpi di giustizia, eguaglianza, prosperità e agiatezza, come se niente fosse?

La Parker propose e difese con sistematicità questi concetti, da buona e acuta anticonformista, divenendo con il tempo una celebrata icona contro tutti gli abusi, le iniquità e le sopraffazioni del potere.

Robert Charles Benchley

A qualche mese dalla sua permanenza, le venne affiancato, nella redazione di «Vanity Fair», il giornalista, attore e sceneggiatore statunitense Robert Charles Benchley, conosciuto per il suo umorismo pungente, che si sistemò in una scrivania accanto a lei, divenendone, in perfetta sintonia mentale, il solerte collaboratore nonché intimo amico “Robert Benchley ed io avevamo un ufficio così piccolo, che se fosse stato un po' più stretto sarebbe stato adulterio”, motteggiò la Parker. Benchley era un tipo all’antica (così fu, almeno nei primi tempi),  alto, moro con dei baffetti fini, intelligente, laureato ad Harvard. Un puritano, timorato di Dio, che non si comportava da sciupafemmine, non fumava, non beveva né faceva uso di sostanze stupefacenti e trascorreva il tempo libero con sua moglie, Gertrude Darling, conosciuta ad Harvard, alla quale era profondamente devoto (le rimase legato tutta la vita) e con i due figli che adorava. Dopo il lavoro, era solito rientrare immediatamente a casa, recandosi direttamente alla stazione, senza concedersi  distrazioni di sorta, anelando soltanto il tepore e le gioie della famiglia. In poco più di un anno in lui si manifestò un’incredibile metamorfosi, dai risvolti nietzschiani, che lo trasformò in un pervertito donnaiolo, alcolizzato e drogato (forse a causa dell’influenza esercitata dal disinvolto libertinismo della Parker: “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”). In ogni caso tra loro non vi fu mai una relazione sessuale concreta ma soltanto un intenso, appagante, erotismo cerebrale. Ciò comunque non gli impedì di vincere, nel 1935 l’Oscar, per il cortometraggio How to Sleep da lui scritto, diretto e interpretato. Morì, improvvisamente, nel 1945 per emorragia cerebrale e Dottie ne rimase sinceramente scossa, in quanto Benchley fu per lei l’unico vero amico di tutta la sua vita. 

Robert Emmet Sherwood

A loro si unì il commediografo e sceneggiatore Robert Emmet Sherwood, laureato alla Harvard University di Cambridge, vincitore nel 1949 del premio Pulitzer con l’opera biografica Roosvelt and Hopkins. Questo triangolo di menti brillanti costituì il nucleo originario di quel circolo-cenacolo di intellettuali che, a partire dal 1919, iniziò a riunirsi periodicamente presso il ristorante dell’hotel Algonquin. I tre moschettieri della critica, fondatori e animatori di un consesso di personaggi spesso bizzarri, folli, arroganti e senza inibizioni, che costituirono, negli anni, quello che venne denominato il circolo vizioso. Al terzetto si unì, ben presto un’altra donna, la scrittrice, drammaturga Edna Ferber, acuta intellettuale, femminista oltranzista e antirazzista, laureata presso la Lawrence University e futura vincitrice, nel 1925, del premio Pulitzer per il romanzo So big. Una donna che non passava inosservata, non certo per la sua bellezza bensì per il suo carattere forte e determinato, con cui esprimeva, con indomabile enfasi, il suo impegno sociale e politico. Si può dire che il circolo dell’Algonquin raccolse quella che Gertrude Stein definì (con disappunto della Parker) “the lost generation” - la generazione perduta – degli intellettuali americani, tra le due guerre mondiali, dagli anni Venti ai Trenta; un gruppo di scrittori, artisti e poeti maledetti, che annoverò tra le sue fila (ai livelli alti) personaggi come Hemingway, Scott Fitzgerald, Dos Passos.             

Speeding bullets through the brain of the folk...
Proiettili veloci attraverso il cervello della gente...

Tutto ebbe inizio quasi per caso, quando nel 1919 Dorothy Parker ricevette un invito a pranzo, presso il ristorante dell’hotel Algonquin a Manhattan (New York City) situato al numero 59 della 44esima strada Ovest, tra la Quinta e la Sesta Avenue, per festeggiare il ritorno in patria del conduttore radiofonico e critico teatrale Alexander Woolcott del «New York Times», reduce dalla prima guerra mondiale, sebbene il suddetto non si fosse mai cimentato in alcun atto eroico, né avesse maneggiato un’arma, avendo trascorso l’intero periodo di belligeranza  in Francia, in un caldo e sicuro ufficio del giornale militare americano Stars and Stripes a timbrare moduli. Woolcott era un personaggio suscettibile e ambizioso: trentaduenne, miope, con gli occhiali dalle lenti molto spesse, obeso, omosessuale e maligno. Era uno dei personaggi emergenti di quel periodo, che indulgeva nel vizietto di travestirsi da donna, con un trucco a dir poco pesante, felice di interpretare, per gioco e per passione, con atteggiamenti vezzosi, dei vomitevoli ruoli materni. Inoltre, nella sua abissale arroganza, si vantò, negli anni a venire, in più occasioni, di aver ispirato il personaggio di Nero Wolfe, il detective brillante ed eccentrico creato da Rex Stout (un’affermazione ridicola e risibile) ma l’autore, disgustato e divertito, lo smentì categoricamente. Sessualmente inadeguato, passivamente dissoluto era, in questa sua esaltante depravazione, del tutto simile al capo dell’FBI in carica in quel periodo, J. Edgar Hoover, un vanto (leggi vergogna) per tutti gli Stati Uniti d’America. Due grotteschi personaggi degni di una commedia di Aristofane. Venne definito, dai suoi numerosi detrattori, tra i quali militava anche Harold Ross futuro fondatore e direttore a vita del «The New Yorker»: “Una contessa grassa con la capacità emotiva di un pesce”, critica ardita e malevola a cui il grassone replicò sempre, con altrettanta acrimonia, modulando la sua sgradevole voce sopranile: “Fottiti bell’imbusto!”. 

Alcuni membri della tavola rotonda: (da sinistra) Art Samuels, Charles MacArthur, Harpo Marx, Dorothy Parker e Alexander Woollcott

L’Algonquin, inaugurato nel 1902, era un locale elegante in stile Liberty, ammantato da una britannica compostezza, con le pareti rivestite di boiseries scure. Un ambiente tipicamente conservatore. Aveva derivato il suo nome dalla tribù di indiani americani Algonquian, originari abitanti di quelle terre (prima di essere sterminati dal saggio e civile uomo bianco). Il fondatore e proprietario si chiamava Frank Case e fu lui a sceglierne il nome e a introdurre la famosa tavola rotonda che diede la denominazione al circolo. La tavola rotonda dell’Algonquin rappresentò il primo esempio di quel clima radical chic che caratterizzò la società intellettuale americana per un decennio, prima della grande depressione del 1929, a cui seguì il crack della borsa di New York (del ventiquattro ottobre dello stesso anno) il cosiddetto giovedì nero. Gli anni Trenta, furono una sorta di belle epoque statunitense, di cui New York rappresentò la capitale culturale; caratterizzati da “...lusso e frivolezza, sbronze più o meno festose e amori più o meno discutibili, cronache maligne e recensioni canzonatorie, grandi feste fitzgeraldiane in cui si fabbricava il gin nelle vasche da bagno”. Sarà dunque la grande illusione hollywoodiana, conosciuta anche come il circolo vizioso, nata dall’incontro di personaggi bizzarri, non sempre intellettuali o uomini di cultura, spesso solamente velenosi detrattori, dalla conoscenza orecchiante, che amavano scambiarsi battute feroci, al fulmicotone. Negli anni della senilità Dottie fece ammenda, criticando amaramente lo sviluppo finale del circolo (che ne aveva tradito lo spirito originario) riconoscendone, per certi versi, l’aspetto puerile (più che dibattiti, negli ultimi anni, intorno alla Round Table dell’Algonquin, si sprecarono principalmente boutade: facezie, freddure, frizzi, e motti poco arguti) I tre fondatori; Benchley, Sherwood e Dorothy, che ebbero in animo di dare vita al polo esclusivo dell’intellighenzia e della vita culturale cittadina, in cui gli ingegni newyorkesi più autorevoli potessero riunirsi, periodicamente, intorno al tavolo del ristorante, come paladini della letteratura contemporanea alla corte di un ideale Re Artù, per arricchire le menti di rinnovate conoscenze e geniali intuizioni...rimasero presto delusi. Il sogno di dare vita a un nuovo movimento culturale, seguendo l’esempio dello sturm und drang goethiano, fallirà miseramente perché, come sostenne il filosofo Johan Gaspar LavaterIl genio infiamma e crea”, nel loro caso si trattò solamente di un fuoco fatuo. 

Il Round Table attirò figure controverse e curiose, talvolta prive di talento, come l’editorialista Franklin Pierce Adams, conosciuto come “il cacciatore di virgole di Park Row” per la sua pedante conoscenza della lingua, Deems Taylor, compositore e critico musicale del New York World, che ebbe (tra i tanti) una breve relazione con la Parker, Harold Wallace Ross che con la prima moglie Jane Grant fu il co-fondatore del fortunatissimo «The New Yorker», che iniziò le pubblicazioni il 21 febbraio 1925 e di cui fu capo redattore fino alla sua morte. Anche la Parker fece parte del consiglio di amministrazione della rivista e, a partire dal secondo numero, iniziò a pubblicare le sue poesie, a cui fece seguito il suo primo volume Enough Rope - Abbastanza corda – pubblicato nel 1926, che vendette circa 47000 copie e ottenne critiche sia positive che stroncature (chi la fa l’aspetti!). The Nation definì i suoi versi: “Incrostati di umorismo salato, ruvidi di schegge di disillusione e incatramati con un’autenticità nera brillante” una critica alquanto ampollosa e baroccheggiante, priva di costrutto, mentre sul più pragmatico «New York Times» vennero liquidati con un laconico “Flappers” - superficiali - e in seguito come “Versetti da pappagallo”. Il sodalizio con i colleghi del «Vanity Fair» proseguì con maggiore entusiasmo e in perfetta sintonia, grazie agli appuntamenti fissi all’Algonquin, che ai suoi inizi rappresentò un vero modello di confronto e di sintesi culturale. I tre, quando uscivano per strada, incamminandosi un po' dinoccolati, pieni di vitalità e buonumore, verso il loro ritrovo (una specie di sedes sapientiae mondana) si definivano scherzosamente “un organo a canne deambulante” in quanto le loro altezze andavano a scalare, suscitando l’ilarità dei passanti, proprio come le canne di un organo, con Sherwood alto due metri, Benchley 1,80 e la Parker 1,50, in una perfetta armonia spirituale ed estetica.

Sebbene i pezzi realizzati da Dottie fossero sempre esilaranti e ricchi di curiose metafore, ottenendo, dal pubblico dei lettori, notevoli consensi, come si dice: “Tanto va la gatta al lardo...” la sua permanenza al «Vanity Fair» divenne sempre più difficile e traballante, a causa del suo atteggiamento bellicoso e insensibile a qualsiasi compromesso, essendosi guadagnata dei pericolosi e vendicativi nemici tra i produttori più importanti e influenti di Broadway, come Ziegfeld, Belasco, Dillingham, Burke, di quest’ultimo non si fece scrupolo a ridicolizzarne perfino la moglie Billie definendola (sine ira et studio, come suggeriva Tacito) un’attricetta da vaudeville (la commedia leggera-satirica), cosicché l’altra faccia (diabolica) della medaglia le presentò il conto, e il direttore di «Vanity Fair», Crownie, accerchiato e messo sotto pressione, non potè fare altro che congedarla dal suo ruolo, consegnandole, nel mese di gennaio del 1920, la lettera di licenziamento. I suoi amici Benchley e Sherwood, nauseati da quella palese ingiustizia, si dimisero per solidarietà e così si sciolse il terzetto inossidabile della Fiera delle Vanità. Commentando lo scacco subìto, la neo proscritta, con apparente nonchalance e calcolata ironia, misurando le parole, commentò: “Vanity Fair non aveva opinioni, ma io si” come a voler dire: “Non si poteva andare d’accordo su tali presupposti”. La piccola, grande Dottie non si perse d’animo e, raccolti armi e bagagli, uscita dal suo piccolo ufficio sbattendo la porta, decise di  lavorare come freelance; le offerte non le mancavano di certo, infatti iniziò a pubblicare vari articoli su importanti riviste, quali: «Ain Slee’s Magazine», «Ladies’ Home Journal», «Life», «Saturday Evening Post». Ma il male oscuro della depressione, le sussurrava già cattivi pensieri e iniziò a farsi sentire con sempre maggiore ostinazione, esasperando la sua caratteriale irrequietezza, che alimentò quell’inquietudine che le gravitava nella mente, come un bolide in velocità, proiettandola verso un’esistenza sempre più disordinata e funambolica. Sovente ubriaca, afflitta da una perenne nebbia alcolica, a causa dei troppi gin tonic e dei martini che consumava quotidianamente, come acqua fresca (bere diventò una fede con cui cercò di esorcizzare l’intollerabile realtà), stordita dalla droga, di cui aveva appreso l’utilizzo dal marito Eddie (un vero mèntore in questo àmbito) e dalle innumerevoli sigarette, si abbandonò inoltre a una ninfomania spietata e travolgente, partecipando a frenetici, quanto sterili, girotondi erotici “per niente, per capriccio, per non saper che fare”. 

La prima cosa che faccio al mattino è svegliarmi ed affilare la lingua

Divenne sempre più sarcastica con i nemici e gli amici, formidabili i litigi con Ernest Hemingway e con Francis Scott Fitzgerald, che definì volgare, sebbene li amasse entrambi. Temibile e temuta per l’eccellente loquela di cui era dotata e soprattutto per la penna, virtuosa e senza scrupoli, che usava come una mitragliatrice Gatling, facendo stragi ovunque, nonché per la facondia raffinata, con cui sapeva confezionare le sue micidiali battute. Una donna che, con eleganza, sapeva citare a memoria Seneca e Flaubert, ma che talvolta, per un nonnulla, perdeva il controllo pronunciando bestemmie indicibili o volgarità all’ennesima potenza (i porco Dio non si contavano). Lentamente, quell’essere minuto e apparentemente fragile, angelo aptèro, tragicamente caduto dal luminoso Olimpo sulla lurida terra, in seguito a un complotto ordìto dai famigerati e invidiosi dei, si  trasformò in una virago vindice che visse la sua esistenza sempre più come un gioco e una frustrazione, compiacendosi di raffinare la sua verve dissacrante, così come si affila una lama, prima di infierire crudelmente sulla vittima designata “Amo gli animali e non le persone. Nulla impedisce agli altri di occuparsi di bambini e altre sciocchezze”. Ella, con il suo bel dire amò stroncare il blasonato, ma fugace, mondo dello spettacolo e conseguentemente lo stereotipo, maturato proprio in quegli anni, dell’American way of living (il nuovo modus vivendi americano) cioè il nuovo stile di vita che imperversava tra il jet set (l’alta borghesia statunitense) diffondendosi, come un cancro, tra la società del benessere, in cui confluivano, in totale commistione, le più aberranti perversioni e i più esaltanti idealismi: furfanteria, giochi di borsa, truffe, speculazioni, affarismo, cinema, letteratura, droga, sesso, religione, cinismo, corruzione, depravazione, musica, politica, proibizionismo, gangsterismo…

Dorothy Parker fu una maestra nell’effimera arte della critica, in cui emerse tutta la sua ingegnosa cattiveria, che le diede, in quel mondo fatuo e stupido, facilmente aggredibile, perché ossessionato dal successo, la necessaria autorevolezza per poter esibire, senza pudore, i suoi sordidi vizi oltreché le sue innegabili virtù intellettuali. Riguardo la sua proverbiale ubriachezza e i suoi disinvolti rapporti intimi con  uomini di ogni genere, soprattutto se più giovani (da vera cougar woman, dalla seduttività predatoria), che iniziarono a manifestarsi con sempre maggiore frequenza dopo il suo congedo da «Vanity Fair», è memorabile la battuta “Amo i Martini, ma due al massimo. Tre e sono sotto il tavolo. Quattro e sono sotto il cameriere” in cui l’ironia, si mescola amaramente alla tragica consapevolezza di quella che, a tutti gli effetti,  fu la sua  conclamata degenerazione. Divise gli uomini in categorie: il maschilista, che considera la donna una sua esclusiva proprietà. L’erotomane, che desidera dalla donna una sola cosa. Il narcisista, che esige dalla donna la pura contemplazione estetica, dimostrandosi vacuo e vanitoso. Nel Canto delle ore buie, una frase emblematica esprimeva l’insoddisfazione e il rancoroso disappunto che nutrì nei confronti degli uomini: “Tutta la vita ad aspettare qualche maledetto uomo!”. Il suo risentimento verso l’umanità che la circondava e la disgustava, nacque anche dalla consapevolezza, di cui si rese conto molto presto, che la sua era una creatività annacquata e che i preziosi distillati artistici dei grandi scrittori, che tanto ammirava, come Scott Fitzgerald, Hemingway, Dos Passos, non erano nelle sue corde, essendo in grado, al massimo, di realizzare delle oneste, gradevoli, spiritose produzioni artigianali. Fragili realtà destinate a dissolversi nel tempo, senza lasciare traccia nella storia o forse lasciando solo un tiepido ricordo. Era una donna corrotta e amareggiata, che sognava di potersi affiancare ai mostri sacri della letteratura del suo tempo ma il suo talento era modesto e, come disse Confucio, “Bisogna sapersi accontentare”. La scrittrice Fernanda Pivano osservò sagacemente: 

La sua vita fu un disastro, come ormai sanno tutti; il suo talento lo sperperò come una persona troppo ricca e irresponsabile sperpera il suo patrimonio.

Fernanda Pivano

Il suo gratuito livore, spesso non richiesto e del tutto inopportuno, era sempre in agguato, come testimonia un episodio accaduto una sera, durante un galà in onore dell’attrice Katharine Hepburn. La Parker, come al solito, si trovava al bar a sorseggiare l’ennesimo martini, accanto a lei era seduta un’anziana signora, vestita di giallo e verde. In quel momento la Hepburn fece il suo trionfale ingresso nella sala e la vecchia signora sospirò  ad alta voce: “Che attrice meravigliosa, non trova?

La Hepburn?” rispose svogliatamente Dorothy “grande davvero, è capace di recitare tutta la gamma di emozioni dalla A alla B!”. E la costernazione si stampò, come un manrovescio, sul volto raggrinzito dell’anziana, che diventò, seduta stante,  di un rosso acceso, tanto da farla sembrare colorata come un pappagallo. Fu allora che Dorothy si allontanò barcollando (aveva bevuto troppi martini?). Uscita in strada si guardò intorno, alla ricerca di un taxi; un vento freddo notturno le sferzava il viso, facendole lacrimare gli occhi. Il taxi arrivò. Lei salì e si soffiò il naso. Stava piangendo!

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Quando era in vacanza a Long Island o in Europa, sulla Costa Azzurra, ospite di amici facoltosi, non esitava a portarsi a letto qualcuno dei presenti, magari appena conosciuto, avendo la squisita delicatezza di cambiarlo ogni notte, per non suscitare invidie. Si ritrovò a letto, forse a causa di un malinteso, anche con uno dei suoi scrittori preferiti, Scott Fitzgerald, ma, essendo entrambi ubriachi (anche Scott era un alcolizzato) e del tutto inconsapevoli di quello che stavano facendo, a quanto si disse, la mattina dopo non ricordarono nulla dell’increscioso evento e tutto cadde nell’oblìo. Dottie maturò delle idee molto particolari sugli uomini: “Sono tre le cose che voglio da un uomo. Che sia attraente, spietato e stupido”. Una filosofia che certamente non rese facili le sue relazioni affettive e le causò un’immensa infelicità, non risparmiandole rancorose e infauste ripicche, come si può comprendere leggendo la sua poesia Sentiment - Sentimento: 

Frivoli, meschini, che ne sanno della sofferenza? Hanno cuori di pietra che non si possono spezzare. Non sanno, vuoti sciocchi, che non potrei vedere gli amici che vedevamo insieme, che non potrei tornare dove lui e io siamo stati? Perché lui se n’è andato, ed è finita. È finita, è finita. E quando finisce, solo i luoghi dove hai provato dolore non ti causano sofferenza. Se torni sulla scena della tua felicità, il tuo cuore arderà, agonizzante.

Nel 1924 scrisse, in collaborazione con il drammaturgo Elmer Leopold Rice (un ex avvocato, esponente del teatro espressionista) la commedia Close Harmony che ottenne un discreto successo  e venne rappresentata a Broadway per alcune settimane.

Charles MacArthur

Nel 1926 conobbe, durante un incontro al circolo dell’Algonquin, lo scrittore teatrale e aspirante drammaturgo Charles MacArthur (che nel 1939 ottenne una nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura nel film Cime tempestose) e se ne innamorò. 

Charles MacArthur era un membro alto, bello, talentuoso e del tutto affascinante del gruppo Algonquin. Un giovane giornalista che sognava di diventare un commediografo e Dorothy Parker lo adorava...MacArthur, a quel tempo, era un donnaiolo, che è un po' diverso dall’essere semplicemente uno scapolo estremamente qualificato. 

Dottie ebbe con lui (un vero satiro) un’intensa relazione sessuale e rimase incinta; al colmo della gioia le sembrò di poter coronare il suo desiderio di maternità, che da tempo la pungolava, ma vigliaccamente, ne venne dissuasa (e non è facile capirne la ragione) dai commenti astiosi dell’ex marito Parker (un uomo frustrato e malevolo) e dallo scarso entusiasmo dimostrato dal bellimbusto McArthur, così dovette ricredersi e decise di abortire volontariamente, dimostrando di essere una donna dalle mille furibonde contraddizioni, umanamente priva di temperamento. A cose fatte, se ne pentì (ma era troppo tardi) e tentò il suicidio; dando solo un’infantile conferma di colpevolezza, che le creò il vuoto intorno, facendola rovinare, una volta di più, nella depressione.

Giuseppe Filippo Vietti


Prima parte                Terza parte

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