15 settembre 2014

Un Leopardi inaspettato

Giacomo Leopardi

Quando studiavo Giacomo Leopardi a scuola così come qualsiasi scrittore che ci veniva imposto dai programmi annuali, scattava negli studenti un inguaribile sentimento di ripulsa ma anche un'aura di vacua sacralità che quel figurativo mausoleo di parole ci proiettava. Io in realtà trovavo affascinante la letteratura, forse per una predisposizione naturale alle materie umanistiche o forse perché la riflessione sulla vita mi ha sempre interessato. Tuttavia ricordo i commenti in merito alla vita dell'autore e all'interpretazione delle opere; la sua sembrava più che altro la pedante immagine di un individuo che invece di vivere una vita normale si dedicava "barbosamente" alla letteratura. Ciò che ignoravamo era l'idea che ogni scrittore avesse un lato umano ben più reale di come ce lo potessimo immaginare. Sarebbe bastata la lettura saltuaria di una lettera o uno scritto secondario per scoprire un Leopardi diverso, grazie ad espressioni in un linguaggio comune scevro dalle retoriche letterarie e per questo molto più vero.

L'intento di questo articolo è di mostrare un lato diverso di Leopardi, quello di un uomo comune che ogni tanto si lascia scappare qualche commento di troppo sulle vicende della sua vita.

In questa lettera indirizzata all'amico bolognese Pietro Brighenti del 21 aprile 1820 egli si lamenta della sua condizione:

«Ma io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente, e credono anch'io del mondo e degli uomini non conosca altro che il colore, e non sappia quello che fo, ma mi lasci condurre dalle persone ch'essi dicono, senza capire dove mi menano. Perciò stimano di dovermi illuminare e sorvegliare. E quanto alla illuminazione, li ringrazio cordialmente; quanto alla sorveglianza, li posso accertare che cavano acqua col crivello.»

Oppure quando parla di un suo parente in una lettera al fratello Carlo del 6 dicembre 1822, scrive:

«Ho ben conosciuto quel fenomeno di Menuccio Melchiorri, e pratico tuttogiorno con quel coglione di Peppe, che invita mezzo mondo a mettergli tre braccia di corna.»

In una nota dello Zibaldone del 17 gennaio 1829 egli parla di un argomento che potrebbe essere applicato anche ai nostri giorni:

«N. N. Legge di rado libri moderni; perché, dice, io veggo che gli antichi a fare un libro mettevano dieci, venti, trent'anni; e i moderni, un mese o due. Ma per leggere, tanto tempo ci vuole a quel libro che opera di trent'anni, quanto a quello che opera di trenta giorni.»


Quando nel 1822 ottenne il permesso dai genitori per spostarsi a Roma dallo zio materno Carlo Antici, grande fu la sua disillusione nei confronti dell'antica capitale. L'immagine ideale che si era costruita sui libri si scontrava fortemente con la realtà squallida della vita quotidiana, cui fece seguito anche un'ulteriore disillusione in campo femminile. La sua misoginia infatti si manifestava nei molti commenti, sprezzanti e inaspettati, espressi in una missiva al fratello Carlo datata 6 dicembre 1822.

«Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi restringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto due fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s'incontrano sono così. Trattando, è così difficile fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si trovano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette di una volta, in ogni modo sono così pericolose come sapete.»

Carlo Leopardi

Nella stessa lettera si sofferma su una serva descrivendo la sensazione che egli ne ha tratto incontrandola:

«Figuratevi una servaccia sciocchissima, bruttissima, goffissima, senza una grazia negli occhi o nel portamento o in alcuna parte della persona, senza una parola in bocca, insomma senza un attrait immaginabile al mondo; e tutto questo, essendo puttana, o se non altro, civetta. Io non conosco le puttane d'altro affare, ma quanto le basse, vi giuro che la più brutta e gretta civettina di Recanati vale per tutte le migliori di Roma.»

Sarà certamente l'immagine desolante da lui colta e le continue delusioni amorose (ampiamente raccontate nelle strazianti poesie) a far supporre allo stesso Leopardi più facile, da parte sua, innamorarsi di una straniera piuttosto che di un'italiana. In una nota allo Zibaldone scritta a Firenze il 21 settembre 1827 scrive:

«Se fosse possibile che io m'innamorassi, ciò potrebbe accadere piuttosto con una straniera che con un'italiana. Quel tanto di nuovo o di ignoto che v'ha nei costumi, nel modo di pensare, nelle inclinazioni, nei gusti, nelle maniere esteriori, nella lingua di una straniera, è molto a proposito per far nascere o per mantenere in un'amante quella immaginazione di mistero, quella opinione di vedere e di conoscere nella persona amata assai meno di quello che essa nasconde in sé stessa, di quel ch'ella è, quella idea di profondità, di animo recondito e segreto, ch'è il primo necessario fondamento dell'amor più che sensuale. Oltre alla grazia che accompagna naturalmente ciò ch'è straniero, come straordinario.»

C'è persino un commento allo scrittore del momento, Alessandro Manzoni, di cui si faceva un gran parlare dell'opera più importante I Promessi Sposi. Il 25 febbraio 1828 ad Antonio Papadopoli scrive:

«Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, nonostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di grande ingegno; e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto seco a Firenze. È un uomo veramente amabile e rispettabile.»

Su Leopardi sono state avanzate anche delle illazioni prive di elementi oggettivi, in merito ad un suo rapporto amoroso con Antonio Ranieri. Si conobbero nel 1827 e tra essi nacque subito un'intensa amicizia, tanto da decidere di trascorrere assieme cinque mesi a Roma cui fece seguito una fitta corrispondenza. Colpisce in particolare una lettera dell'11 dicembre 1832:

«Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo.»

Antonio Ranieri
Antonio Ranieri

Il Ranieri dal canto suo scriverà un libro, Sette anni di sodalizio con Leopardi dove racconterà gli aspetti intimi del poeta. Un poeta che come tutti gli uomini manifesta le proprie elevazioni, le intellettualità e quei lati umani che la scuola, per pudicizia o per scelta non racconta mai.

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