14 febbraio 2022

Ogni mattina a Jenin: un romanzo che racconta la Palestina di Susan Abulhawa (Romanzo 2006)

La nostra rabbia è un futuro che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza fa piangere le pietre.

La guerra, la tristezza, la solitudine, ma soprattutto la storia, sono i protagonisti principali del libro. Le pagine di questo racconto sono un fiume in piena, vissuto, osservato, assaporato dall’autrice Susan Abulhawa che fu costretta a fuggire dalla terra di tutti ma di nessuno insieme alla sua famiglia dopo la guerra dei sei giorni. Abulhawa mette a nudo il suo cuore e scrive della sua amata Palestina come pochi autori: l’invasione, i Territori Occupati, le stragi, gli attacchi, i genocidi e la Nakba

Ogni mattina a Jenin è una passeggiata nella storia attraverso gli occhi di tre generazioni, prima, durante e dopo la fondazione dello stato di Israele. Descrive con cura gli eventi catastrofici che hanno segnato la vita degli occupati con parole crude, vere e dure capaci di trafiggere il petto e di lasciare amarezza righe dopo righe.  
Pensavamo che fossero solo in cerca di un rifugio, dei poveracci che volevano solo vivere, invece hanno ammassato   armi per cacciarci dalle nostre case” cosa è cambiato dal 1941 in poi? Prima che gli eventi annientassero passato e presente? Cosa è successo dopo i primi sbarchi dei coloni? E dove è finita la leggerezza degli anni precedenti? Quella serenità, quella spensieratezza che arrivava l’attimo prima della raccolta delle olive o delle feste musulmane, si è smarrita nel momento in cui sono sbarcati gli ospiti indesiderati. Sono tanti i sentimenti rilevanti nel racconto di Abulhawa, l’amore per i tempi felici delle vecchie generazioni, la paura di perdere cari e averi più grandi, la rabbia dell’impotenza e della fragilità, l’abbandono delle terre e delle case, la nostalgia di ricordi vissuti ma anche di quelli che non si vivranno mai, il nazionalismo che prevale in tutte le generazioni e la catastrofe interiore ed esteriore di tutti quelli che portano il peso di essere palestinesi.

Questo libro è interpretabile come la storia nella storia, Dalia, Amal e Sara tre donne, tre generazioni differenti tre diversi punti di vista. Dalia ha vissuto la sua terra durante gli anni migliori e ha visto il mutamento precoce a causa dell’invasione. Aveva tutto Dalia poi all’improvviso, si è ritrovata spoglia, sola, mutilata. Amal cresce in una famiglia normale con una Jenin ancora in piedi, sogna di laurearsi e trovare l’amore, sua madre, Dalia, è diventata un cadavere che respira perché qualcuno ha rubato il suo amato figlio Isma’il. Amal vede Jenin esplodere e perdere tutto, vede i massacri di sabra e shatila. Sara nasce in America ma si sente straniera, in lei c’è la Ghurba, c’è una nostalgia di tempi mai vissuti, ci sono le sensazioni e i racconti di sua madre Amal di un posto chiamato Palestina ma che tutti chiamano Israele. Lei percorre le strade di Jenin e dei posti limitrofi che sua mamma le ha cantato per tutta la vita e respira risentimento e sofferenza che caratterizzano quei luoghi subendo, sulla sua pelle, le tragedie di milioni di sfollati

L’attenzione principale del romanzo è l’io ebreo e l’io arabo/musulmano che prende forma sin dall’inizio della narrazione. L’ossimoro Palestina/Israele, musulmano/ebreo arriva all’apice della sua essenza risultando un masochismo profondo con Isma’il e David che rappresentano due facce della stessa medaglia, due estremità contrapposte, due varianti lancinanti nel petto di coloro che vivono e che hanno vissuto questa realtà. Abulhawa crea una storia incredibile, sceglie un modo particolare di raccontare israeliani e palestinesi e lo fa lasciando il lettore senza fiato e con uno stupore che non ha eguali. Dalia perde Isma’il in mezzo alla folla, un soldato israeliano trova David, un figlio desiderato e mai arrivato. Chi è Isma’il? Un bambino di pochi mesi nato con una sola colpa: essere palestinese nel periodo della colonizzazione. Chi è David? È quel bambino palestinese che sua mamma ha perso urlando tra la folla “ibni” e si è trasformato in un israeliano, in un ebreo, in un soldato riparatore che tortura palestinesi pensando che siano loro quelli nel torto. Dalia non saprà mai che in realtà suo figlio è vivo ma Amal, sua figlia, conoscerà David e ritroverà Isma’il e allo stesso tempo, i due opposti si congiungeranno fondendosi in un'unica anima. 

Alla fine della lettura si avverte un vuoto interiore difficile da poter colmare dopo, si inizia a credere che esistano dei vincitori e dei vinti ma non è affatto così e solo colui che è convinto del contrario, non ha capito e non lo farà mai. L’unico sentimento capace di logorare dentro al lettore al termine dell’ultima riga dell’ultima pagina è la mancanza di conoscenza verso la causa palestinese e quanto si faccia troppo poco per ricordare i massacri, genocidi, guerre e sofferenze di questo popolo. 

Ogni mattina a Jenin è un pugno nel cuore, è un grido di una madre, di una figlia, di una moglie, è un grido di disperazione e di speranza per cercare di arrivare più in fretta e vicino possibile alle orecchie di tutto il mondo. Il coraggio con cui Susan Abulhawa sceglie i termini, le frasi e i sillogismi da usare è da ammirare. Forte e determinata, la sua scrittura, si rivela adatta per raccontare questa storia e questi fatti ma, soprattutto sicura di poter essere l’unica in grado di farlo e affrontando con delicatezza, il dolore e il martirio per la perdita di tutto ciò che si possedeva prima di conoscere queste sensazioni.

Si sono presi tutto Amal. E vogliono ancora di più.” E ad oggi, tutto rimane uguale come tempi, anni e generazioni fa.  

Alessandra Pia Ferrara

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