23 marzo 2022

Le famose cortigiane del secondo impero: la Valtesse (prima parte)

Emilie-Louise Delabign

Il denaro rimuoverà l’odore di urina e di lardo bruciato
Valtesse de la Bigne

La sfortunata Emilie nacque in uno squallido e malsano quartiere parigino, da genitori disgraziati e anafettivi, che non erano in grado di garantirle un decoroso futuro. Nei primi anni la sua esistenza fu terribile e ingrata, tra miseria, umiliazione e violenza, il suo destino pareva inesorabilmente segnato dagli stenti e dalle privazioni ma crescendo si rese conto di avere un'opportunità, l'unica possibile, all'epoca, per una donna del popolo e decise di fare drastica scelta...

Emilie-Louise Delabigne (Parigi 1848 – Ville d’Avray 29/07/1910) nacque in una famiglia molto povera proveniente dalla Normandia; il padre Louis Ponce Trembloy, nativo di Verdun, alcolizzato, tossicomane e violento, era insegnante in un istituto religioso parigino, la madre, Victoire Emilie Delabigne, di professione sarta e lavandaia, nel 1844 venne assunta nello stesso istituto, dove conobbe Louis e iniziò con lui una travagliata relazione da cui nacquero sette figli, tra maschi e femmine, (inclusa Emilie-Louise) tutti illegittimi. La disgraziata coppia andò ad abitare in un lurido tugurio in rue de Paradis-Poissonnière, a Parigi, situato nel X arrondissement, che non aveva nulla in comune con il giardino dell’eden, (Il Paradiso perduto di John Milton) ma condivideva un grave disagio esistenziale con le numerose botteghe di pescivendoli, a causa della miseria e della desolazione del luogo nonché dell’acre e rancido odore marcescente che gravava nella via, ammorbando l’intero quartiere. Per mantenere la numerosa famiglia la madre, saltuariamente, si prostituiva e la piccola Emilie, dalla finestra della stanza disadorna, in cui dormiva i con fratelli e le sorelle su un materasso malsano, talvolta osservava, con gli occhi tristi della rassegnazione, i clienti lasciare l’edificio e allontanarsi, dopo aver soddisfatto le loro voglie, soffocando il suo lamento di bambina infelice, che sognava una vita lontana dalla miseria e dall’umiliazione. Emilie-Louise era una ragazzina bellissima e ambiziosa che visse un’infanzia difficile, a cui, per sua sventura, fu negata l’adolescenza; aveva lunghi capelli rosso-oro, intensi occhi azzurri, una carnagione pallida e delicata ed era intelligente e scaltra, con un gusto innato per il bello. Come la piccola fiammiferaia della favola di Andersen, venne mandata a lavorare già all’età di dieci anni in una pasticceria in Notre-Dame-de-Lorette e a tredici divenne commessa in un negozio di abbigliamento, con annesso laboratorio di cucito, che aveva sede in prossimità degli Champ-de-Mars ed era frequentato da ufficiali dell’esercito e da uomini facoltosi, dove guadagnava la modesta cifra di tre centesimi al giorno. Per arrotondare il magro salario, lavorava anche, con mansione di cameriera, in un birrificio del quartiere o si prestava, saltuariamente, a fare da modella al pittore paesaggista Jean-Baptiste-Camille Corot (il cui atelier si trovava nei pressi della sua abitazione) nei confronti del quale nutrì sempre un sincero affetto. Il primo episodio traumatico della sua vita, risale a quel periodo; una sera, durante il rientro a casa dal lavoro, sulla strada, venne insidiata da un vecchio e ripugnante  uomo senza scrupoli, che, approfittando della sua ingenuità di ragazzina, brutalmente la violentò. L’evento segnò profondamente la sua psiche, determinando il passaggio repentino e crudele da bambina a donna, forgiandone il carattere in modo negativo. Nonostante la tragica esperienza vissuta, che all’epoca non suscitava scalpore e tantomeno sdegno nella società civile francese,  continuò a lavorare nel negozio di abbigliamento, coltivando la segreta speranza di un’ascesa sociale ma iniziando a provare, quasi per capriccio,  l’ebbrezza clandestina delle prime esperienze di meretricio, forse alla ricerca di un riscatto economico, per stemperare l’oltraggio subito. Pochi anni dopo conobbe il ventenne Richard Fossey e se ne innamorò perdutamente, sognando, in cuor suo,  di poter costruire con lui una serena vita matrimoniale, sebbene non riuscisse ad abbandonare del tutto quel piacere oscuro di cui si era sporcata, che la spingeva, inesorabilmente, ad offrire il suo giovane corpo, ancora acerbo, a uomini sconosciuti, per consumare, frettolosamente, dei rapporti a pagamento sotto i portici dei boulevard, animata da una bramosia di guadagno. Come scrisse il giornalista e umorista francese Alphonse Allais: “Un amante è amore, due è temperamento, tre è commercio”. La coppia andò a convivere in un piccolo appartamento situato nel IX arrondissement e nel 1868 nacque la prima figlia Julia Paquerette (Giulia Margherita) e l’anno successivo la seconda, Valérie, che morirà ancora bambina. Il compagno  Richard, dopo due anni di convivenza e nonostante la promessa ufficiale di matrimonio, forse temendo di compromettere la sua reputazione, a causa della risaputa dissolutezza dell’amante o, forse, mancandogli il coraggio di mantenere una famiglia, sollecitato dal padre, che avversava recisamente la relazione, nel 1870 decise di abbandonare Emilie-Louise al suo destino e partì per l’Algeria  (dove poco tempo dopo sposò una bella algerina di buona famiglia). La giovane donna, disperata e delusa, si rassegnò a lasciare le bambine alla madre, nonostante i loro difficili rapporti famigliari; la maternità non l’aveva affatto addolcita e il ruolo genitoriale, sia per la giovane età sia per il desiderio di evasione e riscatto sociale, non le si addiceva proprio, infatti preferì sempre chiamare la sua primogenita “cara sorellina”, per una sorta di inconscio pudore. Qualche anno dopo comunque, manderà Julia Paquerette nel collegio religioso delle Dames de Saint-Joseph a Boulogne-sur-Seine come interna, in cui rimarrà fino al compimento del diciottesimo anno di età, nel timore che la dissoluta madre, ormai priva di remore morali, in combutta con la perfida sorella, traviasse la fanciulla, avviandola alla prostituzione (perpetuando l’infausta tradizione famigliare). Emilie-Louise, consapevole di essere giunta a un bivio, si risolse dunque a seguire le orme della sorella che esercitava come femme de plaisir in un bordello al numero 64 di rue Blanche, nei pressi di Notre Dame de Lorette, con lo pseudonimo di La Marquesse. 

Qualche anno dopo si verificherà un evento sconcertante e clamoroso; nel 1881, quando Julia-Paquerette aveva solo tredici anni, Emilie-Louise fu costretta ad agire in giudizio contro la madre Victoire e la sorella per ottenerne l’affidamento esclusivo, suscitando a Parigi uno scandalo di vaste proporzioni, che alimentò dicerie e commenti poco lusinghieri. Infatti le due donne, entrambe prostitute, avevano ordito, in gran segreto, un piano machiavellico e crudele che prevedeva l’avviamento della fanciulla al meretricio, all’interno della maison close gestita dalla zia La Marquesse (che detestava Emilie-Louise e ne era ricambiata in egual misura), facendone il “piatto del giorno” da offrire a uomini facoltosi, dai palati esigenti, che avrebbero, dulcis in fundo, senz’altro apprezzato la graziosa e innocente Julia come ingrediente esclusivo delle soupers fins, le cene raffinate e peccaminose che si svolgevano periodicamente nel bordello. Il quattordici e il quindici novembre, presso il Tribunale della Senna, si svolse il processo, nell’aula affollata e silenziosa, l’avvocato Jullemier, giureconsulto di fama e amico di Emilie-Louise, con una facondia irresistibile, pronunciò un’arringa in cui descrisse la famiglia Trembloy, con spietata e inappellabile verità; il vecchio Louis Ponce, nonno di Julia, venne definito un ubriacone debosciato, la nonna Victoire una donna debole, ormai sopraffatta dall’età, mentalmente instabile e succube dell’arroganza della figlia La Marquesse, zia di Julia, indicata come una pericolosa magnaccia, amareggiata e gelosa, mentre Richard Fossey, il padre fuggitivo della fanciulla, un inetto, un piagnone, incapace di assumersi le sue responsabilità genitoriali, in pratica un uomo da marciapiede. L’avvocato suscitò un’ovazione di consensi, riuscendo a persuadere il giudice a scegliere il male minore: l’affidamento alla madre, in quanto, audiatur et altera pars, il contraddittorio del suo collega fu piuttosto sterile e del tutto inefficace. La donna si impegnò, naturalmente, ad avviare la giovane Julia  Paquerette Fossey sulla retta via e mantenne la promessa. Raggiunta la maggiore età la fanciulla si unì in matrimonio, per amore, con un uomo semplice, onesto e operoso, Paul Jules Auguste Godard, macchinista ferroviario, con cui ebbe tre figli, un maschio e due femmine; Paul Julien, Louise Marguerite e Andrée Rose, quest’ultima divenne, negli anni venti, un’apprezzata attrice del cinema muto. Per settimane, comunque, i giornali parigini si sbizzarrirono, svelando i retroscena della vicenda, che vedeva coinvolta la più famosa prostituta dell’epoca, sviscerando ogni aspetto  della sua vita privata; segreti e debolezze, curiosità e perversioni, senza alcuna remora né pudore, dando modo alle malelingue di sguazzare allegramente nel fango, per qualche tempo. Il più attivo e pungente, tra i giornalisti mondani, fu senz’altro Albert Wolf che su Le Figaro gestiva una rubrica di gossip e pettegolezzi, intitolata: Le Monde où l’on rigole, che ebbe le sue “luci della ribalta”, come una sorta di novello Torquemada, fustigatore del vizio e depositario di ogni virtù (sic!). È risaputo che la morbosità è un cibo che ha sempre stimolato l’appetito degli esseri umani, anche di quelli più insospettabili e, come sostenne lo scrittore e poeta francese Arsène Houssaye: 

I filosofi hanno sempre amato le cortigiane, questo vale anche per Platone e Socrate che consideravano la donna come un libro e, sotto questo punto di vista, la cortigiana può essere definita un oggetto di studio più interessante della Vergine Maria. 

Nei primi mesi del 1870, dunque, Emilie-Louise Delabigne iniziò a concedersi come prostituta  a tempo pieno e a bere frequentemente, per darsi coraggio e sopportare l’infamia e lo sconforto di una scelta così radicale, covando nell’animo un odio viscerale nei confronti degli uomini, che si acuirà nel tempo, sia per il proditorio abbandono da parte del promesso sposo sia per l’aberrante violenza subita da ragazzina, che, nel ricordo, tornerà sovente a tormentarla, ma anche per l’insignificanza della figura del padre (prototipo della figura maschile), in cui non ebbe mai modo di trovare l’amore e il conforto desiderato, essendo stato un uomo esecrabile e vile, un bullo e un profittatore, che era riuscito solo maltrattarla, lasciandole nell’animo molte ferite e un ricordo amaro. Con il tempo diventerà caratterialmente sempre più fredda, cinica e spietata; un’arrivista sociale, con l’unico desiderio di accumulare denaro, per poter vivere nel lusso e dimenticare ogni sopruso, con un pensiero ricorrente: “Sarò più felice prostituta ricca che povera lavoratrice”, la perfetta interprete della ballata del poeta inglese John Keats La Belle Dame sans Merci (La bella dama senza pietà), impegnata a distruggere la vita di quanti più uomini possibile, di cui imparerà a conoscere ogni debolezza e ogni locus minoris resistentiae, considerandoli  acerrimi nemici,  meritevoli di soccombere, per garantirle l’elevazione sociale (mors tua vita mea). La sua fu una raffinata vendetta, da consumarsi freddamente, esaltando il suo egoismo e il suo egotismo, secondo il principio utilitaristico: “Vendersi senza mai darsi completamente, senza eccezioni per nessuno”. Con l’esperienza acquisirà quegli innominabili segreti della perversione che turbano uomini e donne, depredano l’anima ma arricchiscono il portafoglio e, immaginando di vestire i panni crudeli della divinità egizia Ammit, affascinante e fatale, divorerà, senza pentimenti né rimpianti,  i suoi amanti più facoltosi appena giunti a tiro. In questa fase della sua vita, decise di assumere lo pseudonimo di Valtesse, per l’assonanza semantica con la locuzione “Votre Altesse” (Vostra Altezza), aspetto psicologico-intellettuale caratteristico di un percorso mentale affamato di consenso, che ne sottolineava, viepiù, lo spirito egocentrico, suggestionato dall’estatica contemplazione di se stessa e tendente ad esaltare  parossisticamente la sua autostima, attraverso un semplice artifizio. La Valtesse divenne, ben presto, una delle più apprezzate Lorettes parigine, le prostitute belle ed eleganti, tra le quali, talvolta, si potevano trovare anche signore della piccola e media borghesia, che solo occasionalmente si dedicavano al mercimonio sessuale, per arrotondare un magro salario o pagare qualche conto extra alla fine del mese. Imparò anche a fumare e a bere l’assenzio (la fata verde) una droga che andava di moda all’epoca. La Valtesse evitò, prudentemente, di mescolarsi alle famigerate grisette di Pigalle  (gli scarti sociali), le meretrici peripatetiche, portatrici di malattie veneree, che spesso aveva intravisto, da ragazzina, vivere la loro quotidiana sciagura, sui malfamati marciapiedi cittadini, passeggiando con qualsiasi clima in attesa di un cliente; la sua ambizione la induceva ad aspirare a diventare una demi-mondaine, cioè una cortigiana d’alto bordo. Era una donna attraente, raffinata, esilarante, spaventosa e stupefacente, che seppe crearsi una buona cultura, leggendo molto e frequentando gli intellettuali e i poeti. Aveva un bel portamento e un’innata sicurezza, una conversazione amabile, appassionata e brillante, uno spirito acuto e sagace con la, non comune, capacità di intrattenere i suoi ospiti suonando il pianoforte o discutendo di politica. Memorabile il suo incontro con Léon Gambetta, padre della terza Repubblica francese e ministro degli affari esteri, avvenuto a Ville d’Avray, con cui la Valtesse, convinta bonapartista (dopo aver superato le strenue resistenze della gelosissima amante Léonie Léon), discusse schiettamente, dimostrando  competenza in ambito geopolitico, perorando la causa dell’Annam e del Tonchino, con slancio nazionalista, per convincere il politico affinché entrambe le province del sud-est asiatico rimanessero sotto il controllo francese. Coincidenza volle che il trattato franco-cinese di Tientsin,  del nove giugno del 1885, riconoscesse il protettorato francese su quelle province (dettaglio secondario, ma non meno importante; all’epoca il console francese ad Hanoi era Alexandre de Kergaradec, suo inconsolabile ex amante, una vera pute internationale).  

Negli anni settanta conobbe Jacques Offenbach, compositore e padre dell’operetta, e ne divenne l’amante, facendo un significativo salto di qualità in ambito sociale, (si potrebbe definire uno straordinario coup de théatre). Il maestro le offrì l’opportunità di intraprendere una carriera artistica; ebbe infatti un piccolo ruolo nell’opera buffa Les Bavards, rappresentata presso il “teatro-sala concerto” Bouffes-Parisien, al numero quattro di rue Monsigny, nel II arrondissement, di proprietà dello stesso Offenbach, poi quello di Hebe in Orphéé aux Enfer e nell’operetta La Romance de la Rose si esibì anche nel canto; un critico teatrale la definì: “Rossa e timida come una vergine di Tiziano”(sic!), (la Valtesse, nella recitazione, dimostrò di non avere un grande talento e le sue interpretazioni, furono tutt’altro che indimenticabili). La coppia frequentò assiduamente i caffè e i ristoranti alla moda della Parigi che conta; il Bignon, il café Tortoni (dove ebbe modo di incontrare Zola, Manet, Flaubert, Maupassant). Il suo ritrovo preferito era il Bal Mabille, dove la giovane donna imparò a ballare, divertendosi moltissimo e dimostrando di avere una naturale predisposizione per la danza. All’epoca era il locale più alla moda della città, situato in rue du Faubourg Saint-Honoré vicino all’avenue des Champs Elysées, nell’VIII arrondissement, fondato nel 1831 dal signor Mabille, un bonario insegnante di ballo, senza molte pretese. Dopo alcuni anni di onesta attività, nel 1844, per merito dei suoi figli, il Bal Mabille assunse un ruolo di vertice, in quanto i giovani, assai intraprendenti e ambiziosi, decisero di trasformarlo in una sorta di luogo delle delizie, in cui il beau monde parigino potesse svagarsi, divertirsi, folleggiare e spendere molto denaro. Con un notevole investimento finanziario, sull’ampio terreno circostante vennero creati dei giardini sempreverdi, dei vialetti sabbiosi, loggiati, boschetti illuminati da globi di vetro colorato, una suggestiva grotta e delle zone appartate per gli amoreggiamenti delle coppiette clandestine. Gli alberi vennero adornati di ghirlande leggere e di girandole, venne installato un chiosco cinese, delle palme artificiali e  una giostra con cavallucci di legno, il tutto illuminato a giorno da trecento lampade a gas, il che consentiva ai gestori di tenere il locale aperto fino a tarda ora. Lo scrittore epicureo, giornalista coquinario e abituale frequentatore Charles Monselet, soprannominato “il re dei gastronomi”, estasiato da tanta abbondanza, lo descrisse così: “Tutto è dorato da cima a fondo, gli alberi, le panchine, i vasi, i fiori. Immagina una natura splendente in oro, argento e pietre preziose”. Il Bal Mabille, a causa degli alti costi di ingresso, era riservato alla società borghese abbiente e fra i suoi frequentatori abituali non mancavano le cortigiane più prestigiose e meglio pagate e le Lorette, che spesso si esibivano come ballerine, in quanto dotate di maestria e sensualità. Honoré de Balzac ebbe modo di celebrarle con i versi: “Si compensa la sventura di cui sei causa in casa, riscatti le tue colpe divertendoti come una Lorette a Mabille” ed Emile Zola le menzionò nei suoi romanzi La Curée e Nanà. Una delle più acclamate attrazioni della sala da ballo fu Èlisabeth Céleste Venard, soprannominata Mogador, ballerina di quadriglia e can can, futura contessa di Chabrillan per matrimonio (senza essere una cortigiana), amica di Louise Weber detta La goulue, reginetta del Moulin Rouge, ritratta da Toulouse-Lautrec in un famoso manifesto pubblicitario. Il Bal Mabille  rese famosi  il can can e la polka, tanto che il noto coreografo Jules Perrot (immortalato in un famoso quadro di Edgar Degas dal titolo La scuola di danza, conservato al Musée d’Orsay di Parigi) si documentò al Bal Mabille per realizzare un balletto dal titolo Polka che venne rappresentato a Londra nel 1844. Malauguratamente, dopo la caduta del Secondo Impero e l’instaurarsi dell’austero clima repubblicano, per il suggestivo, costoso e apprezzato ritrovo iniziò la fase calante e nel 1875 chiuse i battenti, cedendo il testimone a locali più popolari come le Folies-Bergère, il Moulin Rouge e il Moulin de la Galette, per poi essere demolito nel 1882, lasciando alla città un malinconico ricordo agrodolce.

Giuseppe Filippo Vietti

seconda parte

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