18 marzo 2022

Carmelo Bene e il delirio nella phoné: uno strano interludio nel grembo materno

Solo Carmelo Bene in scena, anzi nemmeno lui, lui-soggetto, ma una sublime e geniale macchina attoriale che cita e si cita continuamente. Omero, Stazio e Kleist, è lui Achille! Camicia bianca d’Amleto e pantaloni neri, capelli rossastri di Pinocchio. Non più corpo, non più voce, ma un amplificato corpo della voce che pare ergersi come unico vero e fisicamente presente. 

Corpo della voce che trascina testo e personaggio fino all’estrema e lacerante scomposizione parodica, giacché Bene ha una potenza di voce straordinaria, una ricchezza di timbri eccezionale. “Grazie a tutto ciò che ha fatto – scrive Deleuze – può rompere con quanto ha fatto. Attualmente traccia per se stesso un nuovo cammino. S’interessa sempre più all’elemento sonoro preso in se stesso. L’immagine è passata interamente nel sonoro. Non è più questo o quel personaggio che parla, ma il suono stesso diventa personaggio. Ancora una volta, che resta? Il canto degli universi, il mondo del prima dell’uomo o del dopo […] impresa grandiosa che ricrea dappertutto le paludi primitive della vita”. 

É la phonè è l’urlo del cosmo che volutamente toglie di scena il teatro e che si pone come la sua tomba definitiva, la tomba del teatro dei ruoli, dei teatrini dell’io e delle miserevoli conflittualità. Crolla la rappresentazione, non più un riferire ma un ostinato ferirsi, una delirante invocazione che si trascina al di là dell’essere e del rappresentare, per riscoprire una soggettività piena a discapito certo della comunicabilità e del linguaggio. “Considero queste di Achille – sottolinea Bene – le mie ultime prove, un testamento fra il concerto e lo spettacolo. È lo sconcerto dello spettacolo che in me è forte quanto la vergogna di apparire davanti a un pubblico che intendo coinvolgere il meno possibile. Contro la retorica della partecipazione, vorrei che gli spettatori facessero come me, si comportassero come se non esistessero più. Basta un colpo di tosse e si fa sipario”. 

Sicuramente strumentazione fonica e musica sono altri elementi essenziali e guide imprescindibili per muoversi nel suo ultimo nulla in iscritto a teatro dal titolo Invulnerabilità di Achille (tra Sciro e Ilio). È l’avvento della macchina sepolta sotto la piramide dei microfoni, del play back totale. Rotaie acustiche incidono il palinsesto del racconto procedendo sempre verso una decostruzione e una destrutturazione della materia narrativa che rende il testo irriconoscibile a se stesso (c’è molto in comune con l’idea già espletata da Artaud di fare guerra al testo). Abissi, regie incenerite del suono, intervalli scavati, rubati, sordine ammutolite, una intensa dinamica fisica, tutta giocata sullo squilibrio, sul celebre gesto spezzato e sulla sua conseguente accentuazione nevrotica. Il suono sempre naufraga nella variazione perpetua: dal bisbiglio all’urlo, dal sussurro al latrato, dalla lallazione al monologo declamatorio più articolato, simile a un animale che impazzisce solitario dentro un comignolo di versi stracciati e fatti a pezzi. Esala parole frammiste a suoni e a rumori, un complesso congegno sonoro che, scrive Deleuze: 

Non è più la voce che si mette a bisbigliare, o a gridare, o a martellare, secondo che esprima questa o quell’emozione, ma il bisbiglio stesso diventa una voce, il grido diventa una voce, mentre al contempo le emozioni corrispondenti (affetti) diventano modi, modi vocali. E tutte queste voci e questi modi comunicano dall’interno. Da qui il ruolo rinnovato delle variazioni di velocità, ed anche del play back, che non è mai stato per Carmelo Bene un mezzo di comodità o di facilità, bensì uno strumento di creazione.   

La musica è per C.B come la narcosi di un pharmakon platonico, che separa finalmente dal senso, che prende vita indipendentemente dal senso. Musica sono d’un tratto le guerre foniche, dove le frasi sono fatte a pezzi, i fonemi sanguinano e deliranti sono le agonie a squarciagola, un fuoco che incessantemente brucia senza lasciare alcuna traccia. Ma è una fiamma che prima d'abbagliare deve prendere tempo, e che offre spudoratamente almeno dieci minuti di voce negata, mentre C.B avanza sopra un palco pieno zeppo di manichini, busti, gambe, mani che non tornano anatomicamente che sottolineano l’idea di trovarsi nei luoghi del non finito, del mancato per eccellenza. Tutto biancheggiante, compreso un abito da sposa, a figura intera oppure da lui fatto a pezzi e, dopo qualche scrollone spezzato e nevrotico, si siede, forse in procinto d'aprire un breve spartito, assemblando in modo impossibile pezzi di arti, teste, piedi, coroncine nuziali.

Silenzio, nel frattempo, in attesa che le corde vocali, amplificate, diano qualche cenno di vita. Apre una voce fuori campo, è la voce materna di Teti: “Bastardo sei un bastardo/ invulnerabile solo/ dalla parte materna bastardo”. Voce extradiegetica che rivela l’impossibile amore di Pentesilea, che ormai s’è fatta necrofilia, assassinio e smembramento, posseduta in un flash da morta mentre Achille sente brulicare i vermi che abitano la sua stessa carne: “Una storia d’amore che alla notte/ questa che al sole dici non può stare – un amore che è guerra – giuro non tornerò/ non tornerò lo giuro/ se non sposato se/ non sarà mia sposa/ se/ non l’avrò trascinata sulle pietre/ la testa nella polvere la fronte/ coronata di sangue – amore che è ancora luogo del desiderio – Principessa mia sposa principessa/ non era questo il giorno delle rose”. 

Amore che però è anche morte. Crescere è avere a che fare con la morte, lo fa dire anche al suo Otello:  “La morte… questa lebbra cornuta ci è assegnata dal fato nell’ora stessa della nostra nascita”. Ma la morte è anche desiderio, “la vita non vuole guarire – dice Lacan – è l’avvenire-svanire, è voler essere il niente che si è, la tentazione dell’inorganico, la grazia orfica dell’abbandono e, infine, il bimbo-uomo nel grembo…” riprende C.B.: “mi rivuoi, mamma? Dimmi che ci hai ripensato”. 

Beh, non certo il giorno delle rose ora che C.B-Achille è immerso in una allucinata waste land eliottiana oppure dentro quella sospensione del tragico di matrice beckettiana. Attesa, mutilazione, silenzio, sono un territorio che Bene attraversa con grande maestria, un orizzonte d'attesa senza pari e senza vie d’uscita, un non-luogo che si fa zona o chora platonica, forse un disonesto grembo materno nel quale fare ritorno per mostrarsi alla madre Teti inanimato nel suo eterno vivere. Un grembo appunto, dimensione sublime e provocatoria che felicemente porta all’estasi, allo smarrimento, alla perdita di qualunque identità, perché si vuole essere il divenire delle proprie nostre interne contraddizioni. Bene individua il non-luogo par excellence, una porzione spazio  temporale fuggevole e transitoria, nella quale piovono voci dall’oblio, da un futuro mancato e dalla rinascita. Achille è ora un fanciullo sacro sottratto al peso della storia, che ride, che letteralmente si spompa nel cercare di ricomporre il corpo della bambina con i pezzi di manichino che lo circondano sulla scena. Siamo all’apice del depensamento e della sospensione del tragico. Un non pensiero che scardina gli atti e le azioni preconfezionate di ogni civiltà. Achille-Bene sabota il grembo di Teti, abiura la propria Moira (destino assegnato a ciascuno), disconosce completamente le funzioni e i doveri del Timé (onore) e dell’Aidos (vergogna) tanto cari a Omero. Non vuole più essere Achille! L’eroe, l’amante, il mito. Ogni istinto gigantesco si dilegua nella notte. La verità di Teti, quella di Tersite, quella dell’amato Patroclo, di Zeus o di Briseide, attraverso il già citato corpo della voce inizia a vacillare, le grandi verità del mondo si sgretolano dentro un’alchimia mentale che trasforma uno stato d’animo in un gesto, un gesto asciutto, spoglio, che scaccia per sempre “il mito d’Achille che si agita per le carceri dei secoli”. È proprio l’eroe dell’inazione, colui che non vuole nascere, un moderno Prufrock eliottiano che non osa, che visita insieme al suo doppio – “let’s go, you and I” – l’intera storia personale che è poi storia dell’umanità. Immerso in questo Illud Tempus lui non decide, lui è fuori dal pensiero, imprigionato o forse finalmente inorganico in un attimo che si è fatto eterno. Ancora Thomas Stearns Eliot può venire in soccorso “tra la realtà e l’apparenza/ tra il pensiero e l’atto/ cade l’ombra”. Cade l’ombra, crolla la rappresentazione della nascita, lui che nella sua autobiografia fuori dai denti dirà: 

L’impresa. Strappato per i capelli. Una disdetta. 

Questo essere sopravvissuto alla nascita fu sempre percepito da Bene come una sorta d’errore madornale e irreparabile, un iperbolico scherzo del caso, “un aborto vivente”. Il significante che insiste è aborto. Nell’atto stesso di descrivere la propria nascita Bene non riesce a fare altro che negarla, la esclude dall’orizzonte stesso della possibilità, così come fa Achille. 

Più che nato, sono stato abortito, sono stato rifiutato, escluso, estromesso. Mi considero a tutti gli effetti un aborto vivente. 

Straordinario quindi l’ultimo C.B nella sua già citata Invulnerabilità d’Achille (tra Sciro e Ilio), opera che qui si presenta nella sua veste di adattamento televisivo del 1997. Lo spettacolo-epifania o spettacolo-apparizione, che dir si voglia, spiazzante nella sua enigmaticità severa, è la conclusione di un lavoro sul mito d’Achille che lo ha tenuto impegnato per più di un decennio, vedendo il più alto frutto della sua produzione poetica nel volume Vulnerabile invulnerabilità e necrofilia in Achille, presentato con il sottotitolo Poesia orale su scritto incidentato, volendo rimarcare lo stretto legame della sua poesia con la dimensione performativa. C.B è sempre stato un poeta e la sua ricerca poetica ci conduce in un territorio ancora poco esplorato, che si posiziona al di là della tradizione lirica del Novecento. Bene è più un Gadda della prosa, un allievo di Joyce, sempre e solo attento ai tratti soprasegmentali della comunicazione poetica, all’esecuzione orale, concentrata su ciò che Ezra Pound aveva definito melopoeia, cioè l’intrinseca musicalità della parola poetica che oltre ad essere essenzialmente materiale sonoro, “condiziona la portata e la direzione del significato stesso”. Ribadisce Bene: 

[…] Poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, urgenza, vita, sofferenza. È flusso dell’insofferenza dell’esserci. È scontento anche nei casi più felici. È risuonar del dire oltre il concetto. È musicale d’altezza, lirico, in che si dice detta la delusione di quell’altro intervallo tra il pensato e il suo riporto sulla pagina. È l’abisso che scinde orale e scritto. 

Tutto il teatro e tutta la poesia di C.B, non può certamente essere ingabbiata dentro una critica puntuale e onesta. È più un lungo peregrinare verso l’ignoto o forse un correre contro l’enigmaticità severa, che non consola mai. Che ruolo spetta all’ormai classico Carmelo Bene? Lui che continua a essere un grande serbatoio d’ispirazioni poetiche… Lui che si è inoltrato come un ospite inatteso, come un ospite inquietante, fin dentro l’insondabile ventre partoriente che, a detta di Bene, è già sepolcro o già al di là di coloro che – citando Samuel Beckett – “partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, poi è di nuovo la notte”.

Giuseppe Giordano

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