29 aprile 2022

Il Magnifico Ruzante

Ruzante

“Magnifico” è l’aggettivo con il quale Ludovico Ariosto presentava uno dei più grandi teatranti del Cinquecento ovvero Angelo Beolco, detto il Ruzante. Quest’ultimo nacque a Pernumia, nei pressi di Padova nel 1502, da un dottore in arti e medicina, e da una inserviente di casa Beolco, di nome Maria. Il suo duplice genio di attore e autore fu accolto dai suoi contemporanei con lunghi applausi, il suo nome venne costantemente posizionato accanto a numerosi superlativi, come ad esempio “famosissimo” e “nominatissimo”; tanto è vero che egli fu accostato a due autori latini in auge ancora oggi: Plauto e Roscio.                                                                           

Nonostante il trionfo ottenuto dall’autore durante il XVI secolo, le sue opere rimasero nell’ombra durante i tre secoli successivi sia a causa dell’anomalia linguistica che lo distingueva dai testi tradizionali del teatro cinquecentesco sia dall’ostracismo dei letterati per ogni forma di linguaggio dialettale. Inoltre, alla decadenza dei testi ruzantiani, contribuì la naturale difficoltà di lettura dei dialetti rustici (ad esempio il vernacolo pavano). Bisogna sottolineare che la letteratura del Rinascimento, modellata linguisticamente dal “fiorentino colto”, andava prevalendo sulle spinte naturalistiche e sul plurilinguismo in generale.                                              

Il teatro di Ruzante rivendicava la spontaneità e la trivialità (in questo caso il termine assurge a significato positivo) del pavano, accentuando la Snaturalité contadina nel contrasto città-campagna. Un altro tratto importante del suo linguaggio è l’interscambiabilità delle lingue e dei dialetti (è noto come il Ruzante giocasse con il mutare della lingua fondendo insieme il dialetto bergamasco, quello pavano e quello veneziano) come ad esempio questa mescolanza di pavano e francese: «Igu è superbiusi quando i dise: vilan, cuchin, pagiaro! Per le San Diù, a te megnerè la gola» e ancora: «Mo a’ vuò ch’a’ ve muè de gonela, e ch’a ve vestè da çitàn, o da soldò, o da scolaro, e ch’a’ fa e lè per gramero». L’autore Padovano si lascia andare ad un’imitazione parodistica del fiorentino colto per sottolinearne la pedanteria e la rigidità di una lingua così lontana dal popolo: «Bonsegnore, io mi a’ seamo contadino de la vila, che abitiamo e stasamo sul pavano e io mi se rebutamo a la vostra de vu segnorìa». Un altro procedimento tipico del Ruzante in ambito linguistico è la “s” prostetica deformante, ad esempio Francesco Spetrarca e Sletràl.                                                               

Come ha ben sottolineato Ludovico Zorzi, il pavano del Ruzante è una lingua costruita grazie all’apporto di altri idiomi neolatini, come ad esempio il francese, lo spagnolo e il ladino. Questa mescolanza è finalizzata alla potenza espressiva.                                                                                       

Ruzante si scagliò duramente contro l’accademismo di maniera in favore del reale, come dimostra la sua prima commedia La Pastoral, riconducibile al 1521. Essa è un’aspra polemica contro l’Arcadia di Jacopo Sannazzaro, che mostrava un mondo contadino idealizzato e stereotipato. Questa mistificazione viene satireggiata dal Ruzante che impone la cruda realtà, inserendo, accanto ai pastori stilizzati, due rozzi villani che parlano in dialetto pavano: Zilio e Ruzante. Da quest’ultimo deriva lo pseudonimo dell’autore; il nome, tipizzato sul proprio personaggio, fu uno dei primi esempi che si conoscono sulla genesi dei “personaggi fissi”. Qui, come in ogni altra sua commedia, risalta la capacità di fondere il comico con il tragico nella stessa rappresentazione (caratteristica peculiare del teatro giullaresco del ‘400), della quale Shakespeare fu il massimo esponente. Quest’ultimo ebbe la possibilità, come quasi tutti gli autori elisabettiani, di attingere spunto dalle commedie nostrane e in particolare dal Ruzante, come dimostra la somiglianza di queste due frasi: Shakespeare, Re Lear «Troppo in fretta ti sei invecchiato, non hai fatto in tempo a diventar saggio»; e, mezzo secolo prima, il Ruzante: «Troppo in fretta mi sono invecchiato, e non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza».                                                                             

Gli scritti del Ruzante e di molti altri autori (tra cui Folengo, Machiavelli, Ariosto) ebbero la fortuna di conoscere l’Europa intera (come dimostra la comparazione appena accennata) a causa della diaspora di molte compagnie di teatro operanti sul territorio italiano. L’esodo di questi teatranti è dovuto, in particolar modo, alla messa in atto della Controriforma alla fine del ‘500 e dal Tribunale dell’Inquisizione che censurò e oscurò molti testi di carattere sarcastico e di denuncia verso il modo di gestire la religione, soprattutto nelle aree rurali. 

Di fondamentale importanza per la carriera teatrale di Angelo Beolco, fu la conoscenza, databile prima del 1520, con l’intellettuale, architetto e igienista Alvise Cornaro. Quest’ultimo ne intuisce subito le notevoli qualità di attore e diventa suo protettore. In seguito, gli metterà a disposizione una vera e propria compagnia di teatro, di cui il Ruzante ne sarà a capo a soli 20 anni. Proprio in casa Cornaro, il Beolco metterà in scena la sua Prima Orazione (1521) in onore del cardinale Marco Cornaro, capo delle diocesi dell’Italia settentrionale.          

In questo monologo l’attore-autore, utilizzando un tono faceto e scherzoso, denuncia i disagi della vita rurale, aggravata dalla mancanza di leggi che assistano e difendano i “Vilan”, vittime di maltrattamenti, soprusi e inganni da parte dello stato. L’arringa è mossa anche verso la Chiesa che rimane indifferente alla condizione misera dei contadini.           

Statua di Ruzante a Padova

Grazie ai recenti studi possiamo individuare i nomi dei suoi attori-compagni: Marco Aurelio Alvarotto (per il ruolo di Menato), Girolamo Zanetti (per il ruolo di Vezzo), Il Castagnola (per il ruolo di Bilora). Da non dimenticare è l’innovazione che l’autore Padovano portò sul palcoscenico: l’inclusione delle donne in carne ed ossa.                                                                                                

Dall’incontro con l’amico Alvise inizieranno a prender piede i suoi testi e le sue commedie. Le sue rappresentazioni, essendo egli un uomo colto ed essendo cresciuto in un’ambiente dotto, rispettano la concezione aristotelica del teatro: la legge delle 3 unità (di tempo, di luogo e di azione) e la suddivisione in 5 atti preceduta da uno o più prologhi, nei quali l’autore espone la sua personale concezione della vita intesa come naturalezza di sentimenti e linguaggio. Un esempio significativo è la Lettera all’amico Alvarotto. Inoltre, i suoi testi sono tutti costruiti sull’importanza della tecnica dei valori fonici, ritmici e mimici (la mimica era uno dei tratti distintivi del personaggio Ruzante). I contrasti giullareschi e la tradizione popolare dei Mariazi giocano un ruolo fondamentale nella sua seconda commedia La Betìa (1523-1525). Questa messinscena ha la caratteristica di rovesciare, in chiave satirica, il modello ideale dell’amor platonico proposto dal Bembo negli Asolani, inserendo l’amor tra i villani (Zilio, Nale, Betìa e Ruzante) che non si conclude con il maritaggio di una singola coppia, ma con un patto a quattro tra sposi e compari. Di fondamentale importanza, per meglio comprendere il pensiero del Ruzante, sono i Due Dialoghi in Lingua Rustica. Il primo intitolato Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, composto nel 1528; il secondo, Bilora, di due anni più tardi. 

In questi due dialoghi vi è la tragedia dei contadini inurbati, fuggiti dalle loro terre per trovar riparo durante gli assedi militari della guerra de “Cambrai”. Questi villani finivano per ubicarsi nei quartieri più poveri della città, deteriorando «nei ripieghi di una sopravvivenza senza esito».            

Nella Bilora questa condizione umana, compromessa dal peso di schiaccianti umiliazioni fisiche e morali, degrada fino al punto che il villano Bilora (in pavano ha il significato di faina, animale subdolo e sanguinario) compie un omicidio - l’unico in tutto il teatro Ruzantiano - ai danni del vecchio gentiluomo che andò a convivere con la sua gnua, durante la sua assenza. In questa pseudo-tragedia, la violenza è utilizzata come mezzo di sopraffazione e di immediato soddisfacimento.                                  

Un altro capolavoro della fantasia ilaro-tragica del Ruzante è La Moscheta, scritta e interpretata nel 1528. Il parlar “moscheto”, cioè in lingua fina, è il contorno del tradimento di Betìa che accetta i corteggiamenti che le fa il marito, per provarne l’onestà, travestito da forestiero contraffacendo il proprio dialetto in lingua fina. I personaggi vengono svuotati di ogni valore e carattere, ridotti alla pura economicità della loro natura che scatta soltanto sulla molla del bisogno e del sesso. Il Ruzante calca la mano sulla satira antivillanesca, nella quale, ormai, l’unico elemento positivo è la quiete appartata del “Paraiso Terestro” della campagna.

In seguito a questa commedia, il Beolco si trova a fare i conti con la cultura fiorentina, respinta e parodiata anni prima, che esercita sempre più il suo potere captante e che offre un mezzo sufficiente per reggere il peso di contenuti più complessi e drammatici. Non è un vero e proprio rifiuto del vernacolo pavano né una completa abnegazione alla lingua colta; ma nelle sue ultime due commedie La Piovana e La Vaccaria, scritte nel 1533, si può assistere ad una moderazione verbale e ad un avvicinamento al gusto teatrale letterario e classicheggiante, giocato sul contrasto tra il dialetto pavano (usato da umili servitori) e la lingua toscana, con cui si esprimono notai e uomini dotti. 

L’autore, oltre il merito di aver portato il mondo dei contadini al livello della coscienza artistica e di aver reclamato il diritto al riconoscimento della loro esistenza civile, seppe anticipare alcune consuetudini della Commedia dell’Arte (ad esempio i “tipi fissi”). In conclusione, se oggi siamo in possesso della biografia del Beolco, delle sue opere e dei rispettivi contenuti, tutto è da attribuire alla riscoperta moderna nei primi anni del ‘900, a opera di due letterati francesi: Maurice Sand, che inserì l’autore padovano in un repertorio di Masques et Bouffons, e ad Alfred Mortier, autore di una monografia la quale costituì un utile veicolo per la conoscenza del Ruzante.                                              

Gli studiosi italiani, come Paolo Sambin, Emilio Lovarini, Ludovico Zorzi e Emilio Menegazzo, senza dimenticare il grandissimo sostegno di molti altri filologi, hanno il merito di aver riesaminato il dialetto pavano, ormai lingua morta e desueta, traducendolo magistralmente e restando fedeli alle autentiche parole dell’autore che fu, forse dopo Niccolò Machiavelli, il più grande commediografo italiano del Cinquecento.

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