Ogni epoca si misura con la propria fragilità. La nostra lo fa attraverso immagini, suoni e parole che cercano di dare un senso al disordine del presente. E’ in questo tentativo che l’arte ritrova la sua voce più autentica.
Viviamo in un tempo fragile, un tempo che si incrina al minimo tocco. È un tempo fatto di attese e di accelerazioni improvvise, di connessioni continue e solitudini più dense che mai. Un tempo dove l’immagine domina e, al tempo stesso, perde significato. In questo scenario sospeso, l’arte torna ad assumere un ruolo che non è più quello di rappresentare, ma di resistere: resistere al rumore, alla superficialità, alla perdita di senso.
L’artista contemporaneo si muove come un sismografo dell’anima collettiva. Registra le vibrazioni del mondo, le ferite, le paure, ma anche la forza invisibile che attraversa ogni crisi. Non offre risposte, ma domande. Non consola, ma accompagna. È nel frammento, nel gesto, nella materia o nel silenzio che oggi l’arte trova la sua verità più autentica.
L’epoca che viviamo — segnata da guerre, crisi ambientali, precarietà, disinformazione — ci ha restituito un’urgenza: tornare a ciò che è essenziale.
Ed è forse per questo che molti artisti scelgono di riscoprire la materia, il corpo, la terra. L’arte digitale, pur continuando a dialogare con il nostro presente, lascia spazio a un bisogno di contatto, di peso, di tatto. L’opera torna ad avere odore, superficie, imperfezione. È un ritorno non nostalgico, ma necessario: un atto di radicamento, una forma di sopravvivenza estetica in un’epoca che tende a dissolversi nell’immateriale.
Nel panorama internazionale — ma anche nei territori più lontani dai grandi centri — si avverte un cambiamento sottile ma deciso: l’arte non cerca più soltanto di stupire, ma di comunicare. Comunicare fragilità, prossimità, spiritualità. Gli artisti raccontano il mondo non come cronisti, ma come testimoni di un linguaggio invisibile: la trasformazione. Si parla di crisi climatica, di perdita, di identità, ma anche di speranza e rinascita. Ogni opera diventa un respiro, una pausa, una traccia di umanità che sfida la velocità con cui tutto si consuma. In questo contesto anche la curatela si trasforma.
Curare oggi non significa solo selezionare o organizzare, ma prendersi cura: dei linguaggi, delle persone, dei luoghi. Il curatore diventa un ponte, un custode di senso, una figura che costruisce dialoghi anziché strutture. I luoghi dell’arte — gallerie, spazi indipendenti, chiese, ex fabbriche — si riempiono di significati nuovi. Non più solo contenitori, ma spazi di incontro, di lentezza, di ascolto. E forse è proprio questa la parola chiave del nostro tempo: ascolto. Ascoltare il mondo, l’altro, la propria interiorità. Ascoltare il silenzio che spesso precede la forma.
L’artista che sa ascoltare trasforma l’incertezza in visione; il curatore che sa ascoltare restituisce dignità al processo creativo, non solo al risultato. Viviamo un’epoca fragile, ma non priva di bellezza. Un’epoca in cui l’arte continua a respirare — a volte sottovoce, a volte con forza — ricordandoci che anche nel caos può esistere armonia.
Ogni gesto artistico è una forma di resistenza, un atto di fiducia, una dichiarazione d’amore verso la possibilità del mondo di rinascere, ancora una volta, attraverso l’immaginazione. Perché, nonostante tutto, l’arte resta il luogo in cui l’essere umano ritrova se stesso: nell’incertezza del tempo, nel battito del colore, nella luce che attraversa la materia. Un respiro, fragile ma eterno, che tiene unito ciò che siamo.
Maria Di Stasio
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