11 settembre 2009

Il virus

George Romero

C'è un virus che dall'expliot di Tarantino in poi - il 1994, con Pulp Fiction - s'e lentamente inoculato fino a contagiare i critici più restii: è l'intellettualizzazione del B-movie.
Io nutro un grande rispetto per gli artigiani di "genere", ed anche per il certosino lavoro di monumentalizzazione che ne ha fatto Tarantino, ma per me i B-movie sono B-movie e non li si può snaturare. Per questa ragione mi convincono poco - anzi non mi piacciono per niente - le dichiarazioni rilasciate in questi giorni da George Romero: «Più che alle guerre che coinvolgono oggi l'America, Iraq e Afghanistan, penso a tutte le guerre, nel Medio Oriente, in Irlanda, ogni luogo dove si continua a combattere da una parte o dall'altra senza avere dubbi o curiosità sulle posizioni dell'altro. Conflitti tribali, guerre tra bande dove scegli una parte automaticamente senza porti il problema del punto di vista del tuo nemico». Tutto questo per dire che il suo George A. Romero's Survival of the Dead è anche un film di «denuncia sociale». L'horror, dunque, «come genere prediletto per esprimere considerazioni personali sul mondo in cui viviamo». Queste cose, Romero, le lasci dire ai critici; io sarò sempre per il ragazzo che negli anni Sessanta, assieme ad un gruppo d'amici fecero una colletta e, con La notte dei morti viventi, inaugurò un nuovo genere.

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