26 settembre 2021

Giovanni Pascoli e i suoi "doppi": passeggiando nel giardino della digitale purpurea (seconda parte)

È il tempo del crepuscolo. Tempo indefinito che obbedisce riverente solo alla legge della vaghezza. E di vaghezza si colorano i ricordi, come di un’alba di perla, come in una vecchia soffitta che imprigiona un vecchio album di famiglia, fatto di malinconia, polvere e sospiri. Il giardino è lì, che attende. Lui lo guarda con inevitabile sospetto: sa, per un irrazionale presagio, che la bellezza delle sue creature cela un segreto, divenuto impronunciabile, se non a patto di essere narrato attraverso il linguaggio pascoliano. 

Il nido violato e morbosamente ri-costruito è pronto per essere nuovamente disgregato. Dal riverbero tacito e triste della casa di Castelvecchio, il sentiero si fa più complicato e, come nella tela del ragno, i fili si intersecano in geometrie apparentemente perfette, in cui, tuttavia, è facile rimanere invischiati. Nel gioco dei binari, i dualismi si moltiplicano, rompono la sacralità della famiglia in un novello manicheismo, più subdolo, più nascosto. Il cuore ansima davanti a questo labirinto di specchi incrociati, che mostrano, nel sinistro riflesso, il buono e il cattivo. Il giardino ha un potere di attrazione che il richiamo del nido occulta, ma lui presagisce che qualcosa sta cambiando:

O mia Mariù! O mia Du! O mia Du! O mia Mariù! O miei angioli! O mia vita! Che sarà di noi? Siamo ora all’uscir dell’infanzia, si può dire, e io sono vecchio e malato!
(a Ida e Maria, 4 giugno 1895)

Il puer giace sotto il peso degli anni e dell’improvvisa coscienza del suo lento finire, dissolto nell’ombra del padre, che avverte l’imminente rottura del nido e ne maledice la causa: Ida, la sua Didina, il suo angelo a cui il babbo accorda con gioia la massima devozione, sta per sposarsi… La violazione del patto di famiglia incombe con orrore sulla sua testa. Di nuovo. Ineluttabile.

Il 5 maggio del 1895 Ida si fidanza ufficialmente con un giovane possidente di Santa Giustina di Rimini, Salvatore Berti. Le parole del padre-poeta ne rivelano, con sorprendente evidenza, lo sbigottito smarrimento. Il nido è compromesso, il suo cagionevole equilibrio ha generato, per colpa della sorella-figlia cattiva, il caos, il ritorno del caos primigenio, quello dei due colpi di pistola nell’orrorifico ritratto della tragedia. La ferita si riapre e si fa più dolorosa, nell’amara constatazione che lo scorrere del Tempo non consentirà una nuova ri-costruzione. La legge della demolizione non determina nessun compromesso, nessuna accettazione. Ida è la figlia rinnegata, che va via, ignorando la promessa del nido, incurante della corrispondenza amorosa, quasi incestuosa, tra i suoi abitanti. Il carteggio assume toni ancor più drammatici, di latente rimprovero. Sembra di sentirne la voce, nell’urgenza accorata di sottolinearne l’amore e la completa dedizione, la coscienza dell’abbandono e la conseguente disperazione:

Il mio cuore è tutto pieno di Ida e Maria. Se a Livorno non guardo le donne, quando sono a Roma o a Firenze, le guardo con orrore! Oh le mie due piccine! O Ida! O Maria! E mi addormento col vostro nome, stringendo quella crocettina! È la verità, angiolo mio.
(a Ida, 4 maggio 1895)

Tuttavia, nulla è del tutto perduto se Maria, la sorella-figlia buona resta:

Io credevo la novità nuziale dell’Ida come una specie di sfacelo della mia piccola famigliola… O stolto, per chi avevo fatta la mia casina? Per te, Mariù. Sai cos’è? Questo matrimonio mi costa un dolore, ma mi lascia un insegnamento: cosa sarebbe stato e sarebbe di te, Giovannino, se fosse Mariù che andasse via? […] Non disperarti, mia sorellina […] Dal nostro fatto ho derivato solo questo pensiero: “Se fosse Mariù che…?” O no, mio angiolino bello e pallido e tremante e amoroso, con te vivere con te morire!
(a Maria, 9-10 maggio 1895)

L’annichilimento morale per la promessa rubata si condensa, stilisticamente, nel ricorso, tutto pascoliano, al vezzo interrogativo, che enfatizza ed esaspera, con voce e ardore, la sorpresa del cambiamento, mentre i giochi di ruolo si infittiscono e si complicano, intricate trame autunnali sullo sfondo di un cielo cinerino: Maria, la sorella-figlia rimasta, l’unico vero angelo della mia casina, viene “nobilitata”, assurgendo al sembiante, simbolico e reale, di cara mammina mia buona, come si legge nella lettera a lei indirizzata dal poeta il 9 giugno 1895. Il patto del nido si trasforma gradualmente in complotto: sulla scacchiera del destino pascoliano, le pedine si muovono goffe e grottesche, inventando nuove posizioni che caricano di sorprendente pregnanza l’io dello scrittore, quello lirico e quello personale: Ida è ora la sorella-figlia cattiva, che ha preferito la vita alla rinuncia; Maria è la sorella-figlia buona, promossa alla posizione di madre; Giovannino è l’ex puer-fratello-padre-madre, o perlomeno, che a questo aspira. 

Oh, io vorrei essere davvero il vostro babbo e la vostra mamma; ma non ci riesco.
(a Maria, 20 giugno 1895)

Le relazioni si esasperano e si fanno pericolose, incestuose, torbide. Gli schemi familiari vengono ridisegnati a tinte fosche: le sagome di madre/padre/figlie si confondono in una nebulosa quasi immorale, che toglie il fiato e induce alla riflessione. Il dado è tratto. Le pedine si fissano sui tasselli bianchi e neri. Il giardino è ancora lì. Scacco matto. 

La digitalis purpurea è una pianta che presenta caratteristici fiori a campanella dalle tinte violacee. In passato, era una pianta officinale da cui si estraeva un farmaco efficace contro l’insufficienza cardiaca, ma assai pericoloso, se assunto in dosi eccessive, perché tossico, e anzi perfino mortale. Il poemetto pascoliano prende spunto da un aneddoto a lui raccontato dalla sorella Mariù e risalente agli anni in cui erano nel convento di Sogliano al Rubicone. Durante una passeggiata con la loro maestra, lei e le altre ragazze erano state attratte da un fiore mai visto, formato da tante campanelle color porpora pendenti a grappolo in cima a un fusto piuttosto alto. Curiose di vederlo da vicino, vi si erano accostate per sentirne l’odore, ma la suora, allarmata, aveva subito intimato loro di non annusarlo, perché si trattava di un fiore venefico, dal profumo letale. Il fatto reale – come spesso accade nella produzione pascoliana – si carica di una ricercata valenza simbolica. L’io lirico si affaccia sulla soglia del giardino, protagonista del poemetto; si sublima nella sfera dualistica e sospesa della rappresentazione speculare, ignara delle dimensioni temporali, che persistono e perdurano e reiterano il ricordo, rendendolo presente, attuale. 

Siedono. L’una guarda l’altra. L’una/esile e bionda, semplice di vesti/e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,/l’altra… I due occhi semplici e modesti/fissano gli altri due ch’ardono.

L’incipit è sorprendente: schietto, immediato, nessun raggiro, nessun orpello nessuna esitazione. Dritto al punto. Le attrici sono due, rappresentate in una dicotomia binomia che crea l’incanto del racconto, sapientemente diretto dalla regia narrativa dell’autore. Ne muove i fili con l’abile scaltrezza del maestro simbolista che tutto dice e tutto tace nelle reticenze e nell’intrigo polisemico. Tutta l’impalcatura retorica del poemetto si regge, ora più che mai, su puntini sospensivi e parentesi vagamente esplicative. Il puer Pascoli vuole giocare, ma questa volta lo fa seriamente e con l’ansia del dramma. Il giardino, contrapposto al classico topos del locus amoenus, si traveste da novello Eden, dove il frutto proibito, la digitale purpurea, induce alla trasgressione, suggerisce la violazione, risucchia nel baratro della perdizione. 

Ché si diceva: il fiore ha come un miele/che inebria l’aria; un suo vapor che bagna/l’anima d’un oblìo dolce e crudele.

Il cuore purpureo della digitale è l’eros proibito, è il nemico che minaccia la casina, attrae e uccide, Eros e Thanatos. Lei, la sorella buona, donna-angelo per definizione, esile e bionda, semplice di vesti e di sguardi, non si lascia irretire dal perverso richiamo. Maria, sacra persino nel nome, è Beatrice che spalanca le porte dell’eterna beatitudine. È la ierofania, contrapposta alla dissacrante debolezza della sorella-cattiva: ma l’altra, esile e bruna l’altra… I due occhi semplici e modesti fissano gli altri due ch’ardono. Ida non resiste all’ammaliante invito del fiore, ne ascolta il sussurro, ne assapora l’essenza, si inebria del suo profumo. Vittima della tentazione, rompe il sigillo del nido e si allontana per sposarsi, consapevole (o forse no…) della famigliola allo sfacelo, del dramma rinnovato. E diventa la figlia scellerata, lei, Didina, a cui, ciononostante, il padre ferito dedica parole d’amore:

O mia Iduccia soave! In tutta la mia crisi di bene per te, oh! Non vedere ombra di male. La tua felicità sarà sempre al sommo de’ miei pensieri. Se ti ho turbata nel tuo piccolo cammino solitario, perdonami! Che babbo cattivo sono io! […] Amalo il tuo Giovannino. Non so se egli avrà mai felicità al mondo; ma i dieci anni che ha trascorso con te e con l’angiolo, nostra sorella, saranno sempre considerati da lui come i dieci anni più belli della sua vita, i dieci anni più operosi, più poetici, più buoni! O Reginella! Conta sempre sul tuo padre minore.
(a Ida e Maria, 14 giugno 1895)

Un amore alterato che si trasforma in parte della sventura. Giovannino è ascritto al ruolo di “padre misericordioso”, costretto dai tiri mancini di un destino beffardo ad un’infelicità senza senso e senza fine, dentro e oltre il suo bel nido, in cui, come nell’incanto mistificatore delle ombre cinesi, i sentimenti si inseguono e cambiano la loro natura, nell’intreccio irrazionale dell’amore e della possessione, del perdono e del rancore, del rimpianto e dell’estenuante ricerca di completezza e unità. 

È notte. Soffi di lampi da un nero di nubi laggiù solcano di mistero il cielo a tratti perlaceo, a tratti color ebano. Le campane comunicano con i morti. La natura è tutta piegata ai suggerimenti dell’anima. Giovannino alza il capo. La sua infelicità è impalpabile, ma fa rumore. Ritrova la sua vita nel baule perduto a casa Rosati. Deve cambiarsi e lo fa scrivendo alle sorelle:

Mi devo mettere la redingote, le scarpe dolorose, i calzoni e il gilè.
(a Ida e Maria, 13 giugno 1895)

La solitudine lo opprime. Le lacrime si fondono con la disperazione. La sera si addormenta piangendo, quasi sempre con la testa piena di cognac. Le scarpe gialle, nonostante abbia provato ad allargarle, sono ancora troppo strette. E si sente soffocare dal caldo. È uno scrittore triste. Ma lui non lo sa. Mette la sua firma su un foglio imbrattato di vita e poesia. Sta siglando il suo posto nell’immortalità. Ma lui non lo sa. 

Linda Ciano


Parte prima Parte terza

5 commenti:

Unknown ha detto...

Immortale è la la vita della saggezza nel verbo,la descrizione stupenda dell'essere che vive nella nostra mente. Sempre stupenda cornice di cultura.

Unknown ha detto...

Sinceramente grazie...

Unknown ha detto...

Un sincero grazie

Miriam ha detto...

bellissima analisi del " nido" pascoliano e delle relazioni familiari che si esasperano...una lettura moderna del Pascoli che lo rende contemporaneo ed eterno

Unknown ha detto...

Grazie, Miriam... Come sempre...