15 giugno 2022

Edouard Manet e la "Musique aux Tuileries". La nascita dell’arte moderna (prima parte)


Viresque acquirit eundo
Eneide, IV, 175

J’ai toujours pensé que les premières places ne se donnent pas, qu’elles se prennnent.
Edouard Manet

Il lungo e travagliato percorso della pittura moderna inizia con Edouard Manet (1832 – 1883), il primo e affascinante interprete del rinnovamento sociale e culturale del XIX secolo, e si concretizza sostanzialmente in tre opere di quell’insolito artista parigino, borghese e reazionario ma spiritualmente aperto verso i nuovi destini dell’arte: Le dejeuner sur l’Herbe, Olympia, La musique aux Tuileries. Una trilogia, in rapida successione, che consacra l’autore alla gratitudine perenne dei posteri, databile al 1863.
La loro funzione documentaria è esplicita; l’artista coscientemente rifiuta l’idealizzazione e la lusinga degli occhi, compiacendosi di mettere a nudo gli aspetti quotidiani della realtà borghese, in cui le piccole liturgie del bon ton, i vizi privati, le pruderie e le pubbliche virtù spesso assumono una fisionomia contraddittoria, rivelando “tutta la spettrale commedia che si cela dietro il loro decoro”. Manet è un narratore obiettivo che osserva, con sguardo clinico, i fatti e li registra sulla tela senza clamori ma con incisiva fermezza. La sua dissacrazione procede lenta ma inesorabile sebbene non premeditata.

Breve cronistoria

l’oeil, une main…
S. Mallarmé

Le dejeuner sur l’herbe, il cui titolo originario era Bain fu realizzata da Manet in occasione del Salon del primo maggio 1863. L’opera venne respinta dalla giuria per l’inopportuno interessamento dell’accademico Meissonnier (Jean-Louis-Ernest – 1815/1891) che oltre a farne parte ne era anche il più autorevole rappresentante e di conseguenza  venne esposta al primo Salon des Refusés. Il grande quadro (un olio su tela non standardizzata, mesticata bianca, di cm. 208 di altezza e cm. 264,5 di larghezza) al di là di ogni ragionevole dubbio, è autografo, datato e firmato. La composizione è costituita da un gruppo di figure sdraiate su di un manto erboso e immerse nel sottobosco; sulla sinistra una donna nuda (Victorine-Louise Meurent, 1844/1927 modella preferita di Manet) accanto a lei due uomini abbigliati con abiti dell’epoca (Gustave Manet – 1835/1884, fratello del pittore, a destra, e il pittore e scultore olandese Ferdinand Leenhoff, -1841/1914, fratello della moglie Suzanne, - 1829/1906). Sullo sfondo una donna, non ben identificata, in sottoveste (forse un’occasionale modella) in atto di bagnarsi nell’acqua limpida di un torrente. Come opportunamente precisato da Geneviève Lacambre -1937, già conservatrice-chargée de mission del Museo d’Orsay di Parigi, i caratteri paesaggistici dell’opera hanno un precedente nel dipinto detto La peche, il cui titolo originale era Autoritratto con Suzanne e pescatori un olio su tela di cm. 77 di altezza e cm. 123 di larghezza, (firmato ma non datato) conservato presso il Metropolitan Museum di New York, cronologicamente collocabile al 1860-1861. L’artista vi appare con la moglie, entrambi abbigliati in costumi secenteschi, mentre alcuni pescatori in barca si muovono tra la vegetazione acquatica. In quest’opera già Jamot e Wildenstein avevano ravvisato un rapporto con l’opera La pesca di Annibale Carracci (1856/1609) conservata al Louvre di Parigi. Il dipinto rappresenta un capitolo importante nella storia dell’arte moderna, per i caratteri espliciti della composizione; la semplificazione delle forme e del chiaroscuro, l’eliminazione del modellato di stampo accademico, l’apertura verso gli aspetti quotidiani dell’esistenza. Sostanzialmente è il primo atto di una nouvelle vague che coinvolgerà tutta la generazione artistica successiva. Basti pensare che in quell’idillio borghese non vi è, da parte dell’artista, nessun tentativo di idealizzazione ma solamente un’esigenza testimoniale: Emile Zola (Emile Edouard Charles Antoine – 1840/1902) scrisse in merito: 

La colazione sull’erba è la più importante tela di Manet, quella in l’artista ha realizzato il sogno di tutti i pittori; inserire delle figure a grandezza al vero in un paesaggio…

Il giudizio che il pubblico coevo manifestò nei riguardi di questo capolavoro si riassume in una acuta affermazione del critico Charles Monselet (1825/1888): “Un élève de Goya et de Charles Baudelaire, qu’il avait déja conquis la répulsion du Bourgeois, ce qui était un grand pas”. L’opera venne definita sconveniente dall’imperatore Napoleone III (Carlo Luigi Napoleone Bonaparte – 1808/1873) che certo prediligeva le capricciose e lascive veneri di Alexandre Cabanel (1823/1889) ed il critico P. G. Hamerton dichiarò, rincarando la dose: 

Non devo tacere di un notevole dipinto di scuola realista, la traduzione di un pensiero di Giorgione in francese moderno* Giorgione aveva concepito l’idea felice di una fete champetre dove gli uomini sono vestiti e le signore  no, ma la dubbia moralità del soggetto si perdona per amore del bel colore… Ora un disgraziato francese lo ha tradotto nel moderno realismo, su scala assai maggiore e negli orribili panni francesi moderni in luogo dell’elegante costume veneziano. Eccoli qui, sotto gli alberi, la donna in primo piano completamente svestita…un’altra donna in camicia esce da un torrente che scorre nei pressi e due francesi in berretto di feltro siedono sull’erba molto verde con un’aria di beatitudine ottusa. Ci sono altri quadri dello stesso genere, da cui si inferisce che il nudo, quando è dipinto da persone volgari, è inevitabilmente indecente. 

Al suo disgusto fece eco il commento del critico Ernest Chesneau (1833/1890): 

Il suo colorito stridulo e irritante penetra negli occhi come una sega d’acciaio, i suoi personaggi si stagliano aspramente, con una crudezza non mitigata da alcun compromesso. Esso ha tutta l’asprezza di quei frutti acerbi che non giungeranno mai a maturazione. 

Sebbene Manet fosse ben lontano dal prevedere uno scandalo di tale portata, sicuramente egli presagiva l’ostilità che l’opinione pubblica e la critica ufficiale avrebbero dimostrato nei riguardi di un’opera così insolita rispetto ai paradigmi pittorici allora in voga. Lo si evince da una confidenza fatta all’amico giornalista Antonin Proust (1832/1905) un giorno ad Argenteuil allorché erano entrambi intenti a contemplare le imbarcazioni sulla Senna e le donne che uscivano dall’acqua: 

Quando eravamo nell’atelier ho copiato le donne del Giorgione, le donne con i musicanti. E’ scuro quel quadro. Il fondo si è ossidato. Voglio rifarlo e farlo nella trasparenza dell’atmosfera, con personaggi come quelli che vediamo laggiù. Mi stroncheranno. Diranno che mi ispiro agli italiani dopo essermi ispirato agli spagnoli. 

Nonostante le sue qualità innovative Le Déjeuner sur l’herbe si richiama a: La Tempesta di Giorgione, (Gallerie dell’Accademia – Venezia), Il Concerto campestre di Tiziano, (Grand Louvre – Parigi) e in particolare a un disegno di Raffaello intitolato Giudizio di Paride, derivato dall’incisione di Marcantonio Raimondi (Metropolitan Museum – New York). Il particolare registro compositivo, a carattere scenografico, consente inoltre il riferimento al genere del paesaggio storico, molto in voga nel Seicento e repentinamente rifiorito in Francia tra il 1780 e il 1790 grazie a Pierre-Henry De Valenciennes (1750/1819) pittore e studioso, precursore del paesaggismo moderno, che nel 1799 pubblicò un importante trattato sul tema: Elementi di prospettiva pratica ad uso degli artisti, seguiti da riflessioni e consigli per un allievo sulla pittura e in particolare sulla pittura di paesaggio. La luce violenta e convenzionale proiettata sui personaggi, evoca gli effetti luminosi della formula classica, che collocava cupe e teatrali quinte di alberi o di edifici a destra e a sinistra del quadro, lasciando che la scena si facesse sistematicamente più chiara allontanandosi verso l’orizzonte; tale accorgimento era inteso a indirizzare lo sguardo dell’osservatore in quel preciso spazio pittorico. Naturalmente Manet lo utilizzò non certo con intenzioni retoriche o edificanti, caratteri presenti nei cosiddetti paesaggi ideali, bensì con esigenze esclusivamente espressive. L’opera venne dipinta interamente in studio, secondo il collaudato cliché accademico, l’artista comunque utilizzò, come riferimento, un certo numero di schizzi e piccoli studi realizzati en plein air, riuscendo a conferire al colore una vitalità assolutamente inedita. 

La Tempesta di Giorgione Concerto campestre di Tiziano Giudizio di Paride di Raffaello

È possibile ravvisare nell’audacia compositiva e nella modernità dei soggetti, un rapporto con il realismo sociale di Courbet (Jean Désiré Gustave – 1819/1877)  Baigneuses – Musée de Montpellier e Demoiselles aux bords de la Seine – Petit Palais Paris escludendo comunque ogni implicazione ideologica, infatti la pittura di Manet in nessun caso può essere definita democratica. La cultura e l’educazione dell’artista, sommata a un naturale dandysmo, gli impedivano di aderire alla mentalità populista conclamata negli scritti di Proudhon (Pierre-Joseph – 1809/1865) teorico dell’anarchismo e codificata nelle opere di Courbet, in cui l’odore popolare era indicativo di un concreto attivismo politico. 

Manet, che la gente considera pazzo furioso, è un uomo assai leale e semplice che fa il possibile per essere ragionevole; ma per sua sfortuna è impregnato di romanticismo.
C. Baudelaire

Le déjeuner sur l’herbe si trova da alcuni anni nel Musée D’Orsay di Parigi, trasferitovi dal Jeu de Paume (Grand Louvre) a cui era pervenuto nel 1906, attraverso la donazione del pittore, saggista e collezionista Etienne Moreau-Nélaton (Adolphe Etienne Auguste – 1859/1927). Una sua copia, inferiore nelle dimensioni, (cm. 98,5 di altezza  x 115 di larghezza – olio su tela) è conservata alla Home House Trustees di Londra; benché sia anch’essa firmata (non datata) per lungo tempo la si ritenne apocrifa: l’opera, piuttosto abbozzata, raffigura nella donna nuda il volto di una modella non identificata, probabilmente la moglie Suzanne. È opportuno ricordare, inoltre, un piccolo olio su tela (cm. 46 di altezza x 56 di larghezza, firmato e non datato) dal titolo La peche, quasi certamente dipinto a Saint Ouen, come studio per il fondale dell’opera, conservato al Museum Van Der Heydt di Wuppertal (Germania) in cui le pennellate rapide e nervose rappresentano un’ ante litteram della tecnica impressionista. 

L’opera Olympia è un olio su tela standardizzata (di cm. 130,5 di altezza x 194 di larghezza, firmato e datato) eseguito da Manet, sicuramente poco tempo dopo Le déjeuner sur l’herbe, con una rapidità sorprendente (circa tre sedute) derivandolo da uno studio ad acquarello (ora presso la collezione Niarchos di Parigi). Il titolo venne dato dallo scrittore e critico d’arte Zacharie Astruc (1833/1907) circa quindici mesi dopo la sua realizzazione, con i versi tratti dal suo poemetto in prosa La fille des Iles. Relativamente al soggetto, vi è rappresentata una donna nuda (Victorine Meurent) adagiata sugli ampi guanciali di un talamo, circondato da pesanti panneggi e collocato in un confortevole boudoir. L’immagine, dichiaratamente eversiva, esprime, con graffiante naturalismo, la realtà quotidiana di una giovane prostituta parigina (una lorette o una cocotte) in attesa del prossimo amante occasionale. Il suo carattere esplicito, privo di idealizzazione e convenzionalismi, risultò per quei tempi assolutamente scioccante; l’arditezza dello sguardo, malizioso e ammiccante, perentoriamente rivolto verso l’osservatore (che implicitamente diventa cliente della maitresse de plaisir) frantuma l’intimismo della scena, proiettandosi verso l’esterno, con il chiaro intento di ferire e dileggiare il perbenismo borghese, ammantato di falso puritanesimo. Emile Zola definirà l’Olympiala carne e il sangue del pittore”, una sorta di rivolta contro le categorie morali fissate dall’uomo in cui si intravede un anticonformismo in perfetta sintonia con il pensiero degli intellettuali illuminati coevi: da Charles Baudelaire (1821/1867) a Gustave Flaubert (1821/1880) a Alexandre Dumas padre (1802/1870) che al riguardo aveva affermato: “L’antico e il vero sono spesso nudi, mai indecenti”.                               

Nel dipinto è presente, sul lato destro dell’osservatore, una domestica di colore (la modella Laure) nell’atto di porgere alla sua padrona un mazzo di fiori sapientemente assortiti, omaggio di qualche affezionato habitué, in un appunto di Manet si legge: “Laure très belle negresse”. Nel carattere tonale di questa figura si ravvisa l’amore dell’artista per i contrasti violenti; il colore bruno del volto della donna, il candore della veste che indossa, definita da corpose pennellate di bianco di zinco e infine la policromia floreale, a piccoli tocchi, del bouquet. Ultimo elemento del gruppo, solo apparentemente secondario, ma in realtà estremamente significativo per il suo simbolismo e la sua dimensione totemica, il baudelairiano gatto nero, in prossimità del margine destro del quadro (più che la figura l’essenza del gatto, secondo l’interpretazione di Marcello Venturi – 1925/2008). Presenza enigmatica e inquietante, mitigata dal colore cupo del fondale, che colpisce e disorienta per l’impatto fortemente evocativo, quasi a dichiarare, con seriosa ironia, “Faire l’amour c’est faire le mal”, riferendosi agli amori clandestini e lussuriosi. Nell’opera le forme sono ulteriormente semplificate, attraverso un linguaggio più nuovo e audace, presentando netti contrasti cromatici tra il primo e il secondo piano, accentuati dal contorno calligrafico “dato da una linea scabra che delimita gli spazi senza comunque attardarsi a definire i piani” e dal corposo impasto. “Lo schema compositivo appare tanto semplificato e balzante, malgrado l’estremo appiattimento delle forme, da offrirsi, da un lato, come smaterializzato ed essenziale rapporto cromatico a intarsi, dall’altro come presenza inquietante e quotidiana” precisa Sandra Orienti. Si tratta sicuramente di un passo avanti rispetto alle opere precedenti, come si evince dalla descrizione fatta dallo storico Adolphe Tabarant (1863/1950): “Les oreillers et l’echarpe à ramager animent d’un jeu de nuances le premier plan, cependant que le fond lumineux s’est assombrì, faisant contraste…

Venere dormiente di Giorgione Venere di Urbino di Tiziano

Anche in questo caso le fonti sono esplicite: La Venere dormiente di Giorgione (Gemaldegalerie – Dresda), La Venere di Urbino di Tiziano (Uffizi – Firenze), La Maja desnuda di Goya (Museo del Prado – Madrid), L’Odalisca con schiava di Ingres e L’Odalisca di Jalabert (Grand Louvre – Parigi), L’Odalisca di Benouville (Musée des Beaux-Arts – Pau). La tela venne presentata al Salon solo due anni dopo, nel 1865, provocando scandalo, le reazioni dei visitatori si riassumono efficacemente nelle parole del Saint-Victor (La Presse 1865): “La foule se presse comme à la Morgue  devant l’Olympia de M. Manet. L’art descendu si bas ne mérite qu’on le blame”. Le critiche turbarono profondamente l’artista, che in una lettera a Baudelaire manifestò il suo disagio, lamentandosi per le ingiustizie di cui era stato fatto oggetto: “Vorrei proprio avervi qui, mio caro Baudelaire, le ingiurie mi piovono addosso come grandine…” Baudelaire, con fermezza lo invitò a non abbattersi e cercò d’infondergli nuovo coraggio con l’esempio di altri grandi artisti che avevano subìto una sorte analoga: 

Bisogna proprio che vi parli ancora di voi. Bisogna che mi sforzi di dimostrarvi quanto valete. È davvero sciocco quello che chiedete. Credete di essere il primo a trovarsi in tale situazione. Siete più geniale di Chateaubriand e Wagner? Eppure si è riso molto di loro. Non sono morti per questo. 

Maja desnuda di Goya Odalisca con schiava di Ingres

Più tardi in una lettera a Jules Champfleury, il poeta osservò, con estrema acutezza: 

Manet ha un grande talento, un talento che resisterà, purtroppo ha un carattere debole. Mi è sembrato desolato e stordito dalla choc. Ciò che mi nfastidisce è la gioia degli imbecilli che lo credono perduto. 

Champfleury rispose laconicamente: “Come un uomo che cade sulla neve, Manet ha fatto un buco nell’opinione pubblica”.  In seguito anche Stéphane Mallarmé (1842/1898)  commenterà l’opera: 

Questa pallida e smunta cortigiana, in cui s’offre alla vista del pubblico – per la prima volta – un nudo che sfida convenzioni e tradizione. Quei fiori ancora avvolti nella carta, quel gatto così lugubre sortito – diresti – da un poemetto in prosa dell’autore dei Fiori del Male (Charles Baudelaire) e tutte le suppellettili di contorno hanno il timbro della verità e non sono affatto immortali, nel senso ordinario e cretino di questa parola, s’intende, ma hanno senza dubbio un nonsoché di intellettualmente perverso nel loro intento.

Vi fu poi un lungo intervallo, una pausa di riflessione in cui l’arte moderna, seguendo il suo destino, si consolidò attraverso l’apoteosi delle avanguardie. Il silenzio in cui l’Olympia pareva essersi rifugiata venne interrotto nel 1932 dallo scritto di Paul Valéry (1871/1945) Trionfo di Manet

L’Olympia avvince, emana un orrore sacro, s’impone e trionfa. È scandalo, idolo, potenza e presenza pubblica di un miserabile arcano della società. La sua testa è vuoto: un nastrino di velluto nero la isola dall’essenza del suo stesso essere. La purezza di un tratto perfetto racchiude l’Impura per eccellenza, colei la cui finzione esige l’ignoranza tranquilla e candida di ogni pudore. Vestale animalesca votata al nudo assoluto, permette di sognare tutto ciò che si nasconde e si conserva di barbarie primitiva e di animalità rituale nei costumi e nella pratica di prostituzione delle grandi città. 

E André Malraux (1901/1976) nel suo Museo immaginario del 1947 sarà ancora più categorico: 

Si è detto che Manet non sapesse dipingere un centimetro di pelle e che l’Olympia era disegnata in fil di ferro; si dimentica soltanto che prima di voler “disegnare” Olympia o di dipingere della carne Manet voleva dipingere dei  quadri. 

Nonostante lo scandalo, vi fu comunque, tra il pubblico, un discreto numero di ammiratori che tributò un sincero consenso all’artista, tra i meno noti è curioso ricordare anche un’italiana residente a Versailles, di nome Giulia Ramelli, che per poco non divenne l’acquirente dell’opera. L’intraprendente signora scrisse a Manet per conoscere il prezzo del dipinto, però la somma di diecimila franchi, richiesta dall’artista, non rientrava, probabilmente, nelle possibilità economiche della Ramelli pertanto non se ne fece nulla. La signora comunque, con molta cortesia,  lo ringraziò dell’informazione. L’Olympia rimase presso lo studio dell’artista sino alla sua morte, avvenuta nel 1883, quindi venne messa in vendita ma non vi furono acquirenti. Riapparve all’Exposition Universelle del 1889, presso il Palais des Beaux-Arts, dove un collezionista americano espresse il desiderio di acquistarla, ma grazie alla sottoscrizione promossa dagli artisti Sargent (John Singer Sargent – 1856/1925) e Monet (Oscar-Claude – 1840/1926),  nel mese di luglio dello stesso anno e conclusasi nel mese di gennaio del 1890, non senza difficoltà, essa venne donata allo Stato Francese e collocata, in seguito a un decreto ministeriale, nel Musée du Luxembourg, dove rimase sino al mese di gennaio del 1907 quando, per ordine del primo ministro George Clemanceau, venne finalmente trasferita al Louvre e collocata a pendant con l’Odalisca di Ingres (Jean-Auguste-Dominique – 1780/1867). Da alcuni anni è ospitata presso il modernissimo Musée D’Orsay.  

* il critico si riferiva all’opera Il concerto campestre ora attribuita, quasi unanimemente dagli storici, a Tiziano, n.d.a.

Giuseppe Filippo Vietti


Seconda parte

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