11 settembre 2021

Degas e il sesso


È quasi impossibile conciliare le esigenze dell’istinto sessuale con quelle della civiltà.
Sigmund Freud

Malum est mulier sed necessarium malum
(La donna è una disgrazia ma una disgrazia necessaria)                           

Edgar Degas, nel 1854, all’età di vent’anni, soggiornò a Napoli dove viveva il nonno paterno René-Hilaire de Gas con parte della famiglia, in un palazzo tardo barocco (di circa cento stanze) di sua proprietà, ubicato in salita Trinità Maggiore, a due passi da piazza del Gesù e dal Monastero di Santa Chiara, oggi chiamato palazzo Degas ma all’epoca noto come palazzo Pignatelli di Monteleone. Una targa apposta sulla facciata ne ricorda l’illustre retaggio. 

Il nonno si era rifugiato a Napoli, a causa della rivoluzione francese, dove continuò ad esercitare la professione di banchiere e agente di cambio. Sposò Teresa Freppa originaria di Livorno ed ebbe sette figli, quattro maschi; Auguste (padre di Edgar) Henri, Edouard, Achille e tre femmine; Rosa, Laura, Fanny. I maschi raggiunta la maggiore età si trasferiranno in Francia, le femmine si sposeranno con i rampolli della nobiltà napoletana. Auguste, il padre di Edgar, anch’egli banchiere a Parigi, sposò una creola di origine francese nata a New Orleans, Celestine Musson, dalla quale ebbe cinque figli: Edgar il primogenito, nato nel mese di luglio 1834, Achille, Thérese, Marguerite, René. Thérese, che era nata a Napoli nel 1840, dopo il decesso della madre avvenuto nel 1847 vi si trasferì definitivamente e fu allevata dalle zie, il padre Auguste, in tarda età, tornò a Napoli dove morì e vi fu sepolto. Edgar Degas ebbe un rapporto molto intenso con la città di Napoli,  motivato anche dalla sincera devozione che nutriva nei confronti del nonno; la frequentò assiduamente e si appassionò ai circoli letterari cittadini, vi conobbe sia lo storico e senatore del Regno d’Italia Pasquale Vìllari sia Domenico Morelli artista napoletano, anch’egli senatore del Regno d’Italia.  

Napoli nell'Ottocento
Napoli nell'Ottocento

Napoli in quei gloriosi anni, oltre ad essere una grande capitale europea, era una città seducente e libertina che si offriva al visitatore in tutta la sua ostentata lussuria, senza alcun ritegno morale, venendo considerata un luogo di delizie e di depravazione dai gaudenti di tutta Europa, alla ricerca di facili  piaceri. L’esercizio del meretricio rappresentava, senza dubbio, un’attività diffusa e redditizia, e veniva praticata senza inibizioni in molti quartieri della città da femmine spudorate di ogni età, che si offrivano ai passanti per pochi soldi. A quanto pare due donne ogni mille abitanti si prostituivano per vivere e Napoli detenne per quasi due secoli (a partire dal Settecento) il primato di capitale europea della prostituzione. Lo studioso Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare, all’epoca illustre antropologo e criminologo, che non esitò a definire la prostituta fossile vivente, dopo un soggiorno nella città partenopea dichiarò: “Il forestiero non può fare un passo senza sentirsi mormorare offerte di ragazze minorenni, di vergini, di spose, di ragazzi anche”. La scelta infatti era variegata, in grado di soddisfare qualsiasi esigenza e compiacere ogni palato; la Napoli del XIX secolo era un vero porto di mare internazionale del vizio, locus amoenus per giovani e attempati libertini, in particolare nell’area detta l’Imbrecciata posta all’esterno di porta Capuana, nei pressi del Tribunale. Il toponimo imbrecciata deriva dai “brecci” ossia le pietre fluviali raccolte per lastricare le stradine del quartiere. Alexandre Dumas padre la descrisse così: 

Un luogo abitato soltanto da donne le quali, vecchie o giovani, belle o brutte, di ogni età e di ogni paese, di ogni condizione, sono buttate lì alla rinfusa, sorvegliate come criminali, parcheggiate come gregge, braccate come bestie alla rinfusa. 

Sovente, forse per dare un tocco, una sfumatura culturale alla non troppo dignitosa attività peripatetica, all’ingresso dei postriboli  era presente la scritta: “Hic habitat  felicitas”. 

L'Imbrecciata

Nonostante ciò: “Tutta questa canaglia sembra non interessare Edgar che segue un itinerario culturale precisa il critico d’arte Jean-Jacques Levéque. Il canto seducente delle sirene meretrici, acquattate nei vicoli, nei fondaci, nei bassi della città partenopea, pronte a ghermire la preda,  non lo attira (paura forse del cosiddetto mal napoletano? I napoletani lo chiamavano più giustamente mal francese, in considerazione del fatto che la cosiddetta peste gallica si manifestò in Italia in forma epidemica nell’anno del Signore 1494, in occasione dell’assedio alla città partenopea ad opera delle truppe francesi al comando di Carlo VIII il cui esercito era accompagnato da circa ottocento prostitute appestate cioè sifilitiche). Il giovane artista, curiosamente, nonostante respiri il quotidiano clima licenzioso che pervade le vie della nuova Gomorra, è così schivo e riservato, pervaso da una monolitica pruderie e circonfuso da un alone di puritanesimo e di saggezza critica, da dedicarsi esclusivamente allo studio dei capolavori presenti nelle chiese e nei musei della città, realizzando, con dedizione certosina, copie delle opere dei grandi maestri del passato, senza concedersi distrazioni di sorta, tanto da apparire, a dir poco, anomalo a molti cronisti suoi contemporanei e non, suscitando molte perplessità e maliziosi dubbi. “A parte le sedute di lavoro, e oltre alla pittura che lo occupa intensamente Degas conduce una vita piuttosto monotona, - il suo genio è completamente assorto nel suo universo creativo - Si delinea il personaggio che sarà: discreto, lavoratore, distante, preoccupato di restare indipendente, egoista e certamente malato […] Una vita così riservata, ordinata, meticolosa non nasconde forse un dramma, un’impotenza, un rifiuto?” precisa ancora Léveque. 

Il suo comportamento trappista risulta decisamente insolito in un giovane pieno di fervore ed entusiasmo, libero di muoversi e di decidere, lontano dall’ala paterna, certamente non privo di mezzi economici e in buona salute che, improvvisamente, si trova proiettato in una società lasciva e sudiciona, che palesa senza ritegno la sua peccaminosa vocazione e che inevitabilmente dovrebbe stimolare le naturali pulsioni carnali. Ma la pruderie del giovane Degas è inattaccabile, la sua castità tetragona, le donne scandalose della bella Napoli non riescono a fare breccia. E’ interessante ricordare la riflessione di André Gide: “All’origine di ogni riforma morale, a ben guardare, troviamo sempre un mistero fisiologico, un’insoddisfazione della carne, un’inquietudine, un’anomalia

La Napoli borbonica, capitale europea dall’incontrollata crescita demografica, si era dunque felicemente abbandonata ai piaceri della carne, ma il giovane Degas “irrigidito nella sua dignità” pare non esserne consapevole, vi è in lui appunto una sorta di inspiegabile anomalia. “A quell’epoca, 1856, nessun esercito della salvezza, nessuno scandalo aveva ridotto la brulicante prostituzione della città sudiciona. Il sesso folleggiava in piena esultanza” testimonia Gustave Coquiot.   

Durante una visita nella città partenopea, nella sua corrispondenza alla madre Gustave Flaubert è più delicato e prudente nel suo giudizio:  “Napoli è un soggiorno delizioso. Le donne escono senza cappello in vettura, con dei fiori nei capelli e hanno tutte l’aria sfrontata”. Il poeta Louis Hyacinthe Bouhilet,  già compagno di scuola di Flaubert, più prosaicamente afferma: “Napoli è incantevole per il numero di donne che vi si trovano. Tutto un quartiere è pieno di prostitute che stanno sulla porta di casa. E’ l’antica e vera Suburra. Quando si passa per la strada sollevano i vestiti fino alle ascelle e vi mostrano il c… per avere due o tre soldi. Vi inseguono in questa posizione. E’ ciò che ho visto di più incredibile in materia di prostituzione e cinismo…

Un quadretto picaresco  di ordinaria follia, dal quale era difficile sottrarsi, soprattutto per un giovane inesperto delle cose del mondo come Degas, d’altronde Oscar Wilde affermava: “Posso resistere a tutto tranne alle tentazioni”. Di fronte a questa fantasmagoria di vizi e depravazioni che comunque, incredibilmente, non sortisce  alcun effetto nell’universo erotico di Edgar, sorge spontaneo un quesito: Il giovane artista era forse affetto da qualche patologia inibente? “Forse era impotente, se si vuole fare qualche libera supposizione e riusciva solo a convogliare la libido e la curiosità attraverso gli occhi” suggerisce il giornalista e studioso Stefano Malatesta. Un problema, in ogni caso,  certamente inconfessabile per l’epoca, un segreto da non rivelare, una tragedia che sarebbe stata, senza dubbio, la causa psicologica della sua rinuncia  ad ogni intimità con l’altro sesso, e se il problema era concreto è comprensibile, anche se non giustificabile, il suo disagio esistenziale, l’acredine con cui egli manipolerà nei suoi quadri l’immagine femminile, violentandola pittoricamente attraverso i proditori impulsi dei loro corpi, che rappresentano di fatto la tendenza “clinica” della sua arte eversiva. “Quando lei dipinge una donna, la disonora […] Ma che strana idea ha lei dell’umanità” lo rimproverò con asprezza il suo amico e collega  Giovanni Boldini. In assenza di testimonianze attendibili e documentazioni concrete, si possono azzardare solo ipotesi. Ciò gli causerà giudizi severi da parte di una moltitudine di detrattori, in particolare  del solito truculento Coquiot: “Vuole essere considerato un giovane che si controlla in ogni istante - e ancora - …un notaio scorbutico, lunatico, bizzarro, quasi subito misantropo”. 

Egli pare pervaso dal desiderio di condurre una vita morigerata e di claustrale astinenza, pur non avendo alcuna vocazione spirituale,  come se temesse una sorta di contaminazione con l’universo femminile. “La donna è la desolazione del giusto” confiderà, più avanti, all’amica pittrice Berthe Morisot. Eppure, a ben vedere, da un appunto di viaggio del 1858, gelosamente conservato nel suo diario, emerge una dolente nota romantica, un languido desiderio sensuale espresso con molto pudore: “Potrò anch’io trovare una donna semplice, tranquilla, che capisca le mie follie spirituali con la quale trascorrere una vita modesta di lavoro? […]”  

Sarà solo un bel sogno, irrealizzato anche a causa della sua endemica misoginia e misantropia, e probabilmente dalla sua fisiologica incapacità, che lo renderanno sempre più insofferente  e collerico, talvolta anche oltraggioso, condannandolo ad una perenne solitudine, forse anche a causa della sua non esaltante fisicità. John Rewald, storico dell’impressionismo, ci offre una descrizione esaustiva dell’artista: “Piuttosto piccolo, sottile, con la testa allungata, una fronte alta, ampia e convessa coronata da capelli castani, setosi, gli occhi vivi, acuti, interrogatori, infossati sotto un’alta arcata sopraccigliare a forma di accento circonflesso, il naso un po’ all’insù, con le narici aperte, la bocca sottile, mezzo nascosta tra la barbetta rada. Degas aveva un’espressione un po’ beffarda. Doveva apparire quasi fragile in confronto agli altri, soprattutto perché nei suoi tratti, come nei modi e nella voce, c’era una raffinatezza aristocratica e persino fuori moda…”  

Anche nel rapporto, pressoché quotidiano, con le sue modelle Degas dimostrerà di essere imperturbabile, quasi fosse guidato dall’assioma baudelairiano: “Far l’amore è fare il male”.  Durante le sessioni di posa nello studio parigino di rue Victor Masse le giovani muse giravano nude, con civettuola ostentazione e narcisistico compiacimento, suscitando in lui nulla più che un platonico consenso. “La sua presa di distanza è dunque effetto di misoginìa, di impotenza o di disinteresse?” si domanda Xavier Rey. Saranno comunque tutte concordi nel definirlo un vero gentiluomo, rispettoso e riservato, uno stacanovista nel suo lavoro, tanto da costringerle  a lunghe ed estenuanti sessioni di posa, prigioniero della sua inesauribile creatività, ma immune da ogni pensiero lùbrico, scevro da motteggi scabrosi e dal comportamento onesto e irreprensibile, “non è mai stato particolarmente incline a far baldoria” disse di lui Alice Michel, una delle sue numerose modelle, tra cui, non dimentichiamo, vi fu anche la famosa Olympia Victorine  Meurent, detta la crevette (il gambero) per il colore rosso dei suoi capelli, dal corpo estremamente sensuale e seducente, e l’attrice libertina Ellen Andrée, effigiata nel capolavoro L’assenzio.  

Ballerina di 14 anni

Ma la più nota e sfortunata tra loro fu indubbiamente, Marie Van Goethem, (ritratta in una famosa scultura in cera, seta e mussola oggi esposta alla National Gallery of Art di Washington dc), ballerina di 14 anni che Degas conobbe quando la giovane aveva appena quattordici  anni e verso la quale l’artista non nutrì mai desideri men che legittimi, che divenne in seguito ballerina all’Opèra di Parigi, dopo aver superato l’esame di ammissione al corpo di ballo superiore,  realizzando così il suo sogno nel cassetto, per poi esserne cacciata per cattiva reputazione in quanto scoperta a prostituirsi per ragioni di sopravvivenza, evento traumatico che distrusse la sua promettente carriera e la condannò ad una imperitura degradazione fisica e morale; all’alcolismo e in seguito al carcere per furto, (dalle stelle alle stalle; ça va sans dire). 

È importante ricordare che nell’Ottocento la professione di ballerina era associata all’idea di degrado morale e pertanto oggetto di biasimo da parte della bigotta, opulenta e ipocrita società borghese; la precaria condizione esistenziale inoltre  costringeva molte danzatrici ad arrotondare il magro salario con attività poco lusinghiere e umanamente degradanti, che le sottoponevano talvolta anche a vessazioni e pericoli di ogni genere. Il comportamento rispettoso (e insolito) di Degas  rendeva queste giovani donne fiduciose e consapevoli di potersi guadagnare la “pagnotta” nel modo più sereno e naturale, senza sotterfugi, compromessi, molestie e sgradevoli equivoci.

La classe di danza
La classe di danza (dettaglio)

Una testimonianza apologetica riguardo l’atteggiamento misogino di Degas la possiamo trovare in una lettera che Van Gogh scrisse ad un amico nel 1888: 

Perché dici che Degas ha scarse reazioni maschili? Egli vive come se fosse un modesto notaio e non pensa alle donne certo e, sapendosi che prima le amava e le frequentava molto, si penserebbe che, una volta cerebralmente malato, dovesse diventare incapace anche in pittura. Invece la pittura di Degas è virile e spersonalizzata proprio perché egli ha accettato di non essere altro, quanto a sé, che un modesto notaio cui ripugna di darsi al bel tempo. Egli osserva , dunque, gli animali umani più forti di lui eccitarsi e fare l’amore, e li dipinge bene, proprio perché egli stesso non si concede la pretesa di fare altrettanto.   

Uno scritto da cui si evince una sorta di ascetismo artistico impenitente, ben radicato nella psiche di Degas. Significativo è il caso di un’altra modella forse la più illustre e celebrata dalla storia, la mitica Suzanne Valadon, al secolo Marie Clémentine Valadon, madre di Maurice Utrillo, tragico pittore della Bùtte, che nella seconda metà del XIX secolo fu molto quotata e apprezzata sia tra gli artisti bohémien di Montmartre sia negli atelier à la pàge parigini, che più avanti, grazie ai buoni uffici dei suoi mèntori si convertirà alla pittura con lusinghieri risultati.

La Valadon viene descritta come una donna dal carattere selvaggio e ribelle, di una bellezza ammaliante; il corpo esile, agile, ginnico da ex acrobata circense, i capelli folti, le sopracciglia marcate, lo sguardo fiero, dedita all’alcool e di facili costumi. Degas la soprannominerà la “terribile Maria” per la sua innata improntitudine, ed ella, con il suo fascino inquieto ed irresistibile, si procurerà molte amicizie maschili e altrettante relazioni, divenendo l’amante, oltreché la musa ispiratrice di quasi tutti gli artisti della Bùtte, grazie a quel suo sagace spirito democratico che le permise di non discriminare alcuno, né per età né per condizione fisica o sociale. Henri de Toulouse Lautrec uno dei suoi più fedeli amici e confidente (anch’egli incluso nel nòvero dei fortunati intimi, nonostante fosse affetto da una grave forma di nanismo) le suggerirà scherzosamente, con una lieve nota di biasimo: “Tu che posi nuda per i vecchi, dovresti chiamarti Susanna” ispirandosi all’episodio biblico narrato nel Libro di Daniele. E da quel giorno la terribile Maria si farà chiamare Suzanne. Degas, che più volte si avvalse dei servigi di posa della Valadon, in mezzo a quel nùgolo eterogeneo di amanti rappresentò l’eccezione che conferma la regola. Con l’artista puritano ella mantenne un rapporto intellettuale, di tenera amicizia e sincero affetto, un rapporto gratificato dai consigli e dai suggerimenti che il maestro generosamente le dispensava, come un padre premuroso nonché dalla considerazione che nutrì per lei anche come pittrice quando, dopo aver esaminato i suoi disegni, le disse: “Siete veramente una di noi”. A chi, anni dopo, sfacciatamente le domandò se avesse mai avuto rapporti intimi con l’imperturbabile artista, rispose con molta ironia e un po’ di presunzione, che non c’era mai stato nulla, perché Degas aveva troppa paura di lei.                                        

                                                                    Giuseppe Filippo Vietti

Nessun commento: