3 ottobre 2022

L’uomo con la macchina da presa – il cinema che parla di sé

David Abelevič Kaufman, meglio conosciuto come Dziga Vertov, è stato una delle stelle più lucenti del cinema sovietico degli albori, prima che il giogo della censura pesasse sulla libertà artistica. Il suo capolavoro del 1929, L’uomo con la macchina da presa (Čelovek s kino-apparatom), mantiene ancora oggi l’originalità e l’intensità di un tempo, qualità che gli hanno fatto guadagnare un posto tra i migliori film di sempre. Il seguente articolo si propone di rilevare i tratti più rivoluzionari della pellicola, con particolare attenzione all’aspetto metacinematografico che la contraddistingue sin dal titolo. 

La Russia del 1929 era un paese in agitazione. Con Stalin al potere, venne avviato un processo di industrializzazione inaugurato dal primo piano quinquennale. Grazie ad esso, la Russia si sarebbe rimessa in pari con l’Europa, e avrebbe finalmente potuto splendere in tutta la sua potenza. Tuttavia, convertire uno stato totalmente agricolo in un’oasi dell’industria e del progresso non poteva che significare lo stravolgimento delle vite dei suoi abitanti. Milioni e milioni di persone furono costrette a trasferirsi in città – Leningrado e Mosca soprattutto – e ad adattarsi ad un nuovo stile di vita. Il regime, però, non esercitava ancora l’inflessibile controllo con cui siamo familiari oggi: nel 1929 l’arte poteva ancora esprimersi. In questo contesto nacque L’uomo con la macchina da presa di Vertov, pellicola simbolo dell’avanguardia culturale del tempo

Il film comincia con delle avvertenze, informandoci che ciò che stiamo per guardare è una testimonianza di un cineoperatore. In quanto tale, farà a meno dei mezzi di cui il cinema si era fino a quel momento servito: sottotitoli, sceneggiatura, set, attori. L’obiettivo, si dichiara, è scostarsi dai linguaggi teatrali e letterari che avevano contaminato il cinema negli anni. Segue la prima inquadratura, ormai iconica, che vede una macchina da presa gigantesca, sopra la quale il cineoperatore protagonista sta posizionando la sua macchina da presa. La scena si sposta poi in un teatro deserto, dove le sedie si aprono da sole per accogliere la fiumana di spettatori in arrivo. Il proiettore si accende, la pellicola inizia e l’orchestra si mette a suonare. È chiaro che il film che il pubblico sta guardando a teatro è lo stesso che stiamo per guardare noi.

Davanti ai nostri occhi iniziano a scorrere immagini della vita quotidiana della città di Mosca. All’alba, le strade sono ancora vuote e immobili. Solo il passaggio di un treno – simbolo per eccellenza del dinamismo – inaugura il risveglio generale, e così donne e uomini di ogni estrazione sociale si svegliano e si preparano a dare il via alla giornata. Il protagonista pedina chiunque, intrufolandosi dalla parrucchiera, dal barbiere, dalla sarta e dal lustratore di scarpe, immortalandoli in attimi di concentrazione. E non si limita alle persone, tallonando anche bus, tram, treni, aerei e calessi. L’onnivedente cineocchio – così lo definiva Vertov – coglie i moscoviti persino nei momenti più intimi: assistiamo ad un matrimonio, un divorzio, un funerale e un parto. 

Grazie a quest’opera, Vertov poté fondere la sua esperienza nel genere documentaristico con il suo impulso verso il nuovo. Quest’ultimo è ben visibile nel linguaggio del film, che si rifà alla lezione futurista in voga all’epoca. Prendendo esempio da uno dei fotografi più rinomati in Russia, Aleksandr Rodčenko, Vertov prediligeva le plongée e contre-plongée, che conferiscono un effetto straniante. Allo stesso modo, rappresentò la frenesia della vita cittadina non già con carrelli o gru, bensì con inquadrature fisse, dove sono gli elementi dentro di esse a muoversi. Spesso la composizione è anche attraversata da linee oblique, che donano ulteriore slancio. Inoltre, il film è ricco di montaggi alternati e montaggi paralleli – una delle scene più emblematiche è, ad esempio, quella che mostra la routine mattutina di una donna, dove il suo sciacquarsi è comparato al lavaggio delle strade e lo sbattere delle sue palpebre all’aprirsi e chiudersi delle persiane.
Con il montaggio ravvicinato di inquadrature dalla durata di millesimi di secondo, il ritmo della pellicola è a dir poco fulmineo. Un fluire degli eventi ancora più incalzante se lo si accosta alla musica, per la quale Vertov aveva fornito delle indicazioni meticolose. Era cruciale, difatti, che le immagini si muovessero sopra e insieme alle note. Il film non si poteva vedere senza accompagnamento sonoro.

Lo scopo di Vertov era dunque quello di scuotere lo spettatore, innescando in lui una visione attiva e produttiva, capace di donargli nuova consapevolezza. È il modo in cui decise di ottenere questo effetto che, ancora oggi, colpisce per pregnanza espressiva: smascherare il cinema, con le sue convenzioni, attraverso il cinema stesso. L’uomo con la macchina da presa è il cinema che guarda dentro di sé, che si fa un esame di coscienza, che si prende in giro ma che al contempo si compiace della propria forza. È metacinema. E il fascino ultimo della domanda senza risposta che attraversa tutta la pellicola rimarrà sempre: se noi vediamo ciò il protagonista intento a filmare, chi sta filmando lui?

Caterina Cantoni

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