13 gennaio 2023

Orlando di Virginia Woolf e il complesso tema del genere

Mutamenti sessuali e androginia nella prospettiva antisegnana dell’autrice

Orlando è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una delle opere più intriganti che Virginia Woolf ci lasciò in eredità a partire da quel tragico marzo del ’41, quando morì suicida annegando in quelle stesse acque che tante delle sue fatiche letterarie erano sembrate ribattezzare a simbolo di rinascita e rinnovamento. Al di là dello straordinario successo che riscosse il romanzo, in quanto narrazione piacevole ed appassionante, il lettore contemporaneo è portato rintracciarvi numerosi spunti di riflessione circa il concetto di genere e di identità sessuale, tematiche che lasciano trapelare la straordinaria modernità della nostra autrice e che aprono la strada a dibattiti di stringente attualità.

Di Orlando possiamo dire anzitutto che si tratta di un romanzo, un romanzo il cui titolo presenta tuttavia, in maniera velatamente ironica, la dicitura di “biografia”. Per la verità pur non configurandosi come una biografia nel senso convenzionale del termine, e pur mantenendo lungo il corso dell’intera narrazione un tono giocoso, ironico, a tratti surreale, il romanzo fu liberamente ispirato alla vita di una delle più celebri amanti di Virginia, Vita Sackville West, la cui avventurosa esistenza e il cui orientamento sessuale, che visse sempre con una trasparenza ed un coraggio inusuali per l’epoca, le garantirono una discreta fama che il romanzo della Woolf contribuì ad alimentare. Tutt’oggi Vita si configura come un’icona storica del movimento LGBTQ proprio in virtù della sua omosessualità, che la donna non si curò mai di celare a tutti gli effetti. La storia con Virginia ebbe luogo negli anni ’20, ed ispirò questo interessante esperimento letterario che si configura a tutti gli effetti come un affettuoso omaggio alla donna che tanto dovette colpire l’immaginario della nostra autrice. 

Uno degli aspetti più intriganti di quest’opera è il mutamento di sesso che il protagonista, Orlando appunto, subisce attorno a metà della narrazione. Ci troviamo in Turchia, dove si è recato in qualità di ambasciatore della corona inglese, e il nostro eroe viene qui colto da un sonno profondo che si protrae per oltre una settimana. Al suo risveglio scopre, per la verità con ben poco sconcerto, di essere divenuto donna. Un mutamento completo e radicale, che non lo getta però nel panico, né lo sprona a riflessioni particolarmente profonde in merito: preso atto del nuovo stato in cui versa si limita a recarsi presso una tribù gitana in Anatolia e qui vive indossando abiti unisex e non ponendosi mai con particolare urgenza la questione della propria nuova identità sessuale, e del nuovo genere in cui viene classificato di conseguenza. Questa sconcertante calma dinnanzi alla portata del mutamento subito è indubbiamente irrealistica e si ascrive perfettamente nel clima fiabesco della narrazione, tuttavia arriva il momento in cui Orlando è costretto a scontrarsi con la realtà del proprio stato, e questo momento coincide con il ritorno in patria e dunque con la necessità di acquistare per la prima volta abiti da donna. È proprio dal confronto con il vestiario femminile che nasce la riflessione circa le nuove imposizioni che su di lui iniziano a gravare in quanto donna, sugli atteggiamenti che è chiamato a riprodurre e sulle pressioni sociali e aspettative che fioriscono attorno al suo nuovo genere. È dunque l’abbigliamento, espressione sociale di una differenza, a determinare per la prima volta la percezione della differenza stessa. 

Diversi gli studiosi che si sono espressi in merito, uno dei contributi più interessanti è quello di Christy Burns, la quale pose a sua volta l’accento sul fatto che il cambiamento di sesso divenne effettivo, nella psiche di Orlando, non in corrispondenza del mutamento biologico della propria forma corporea, bensì solo quando questi fu chiamato ad indossare abiti femminili. Dunque un mutamento che si manifesta più sul piano sociale che su quello effettivamente psicologico, e che tradisce la natura culturale delle caratteristiche stereotipate attribuite ad un genere in opposizione ad un altro. In linea con questa considerazione vi è l’opinione circa la natura del genere della filosofa statunitense Judith Butler, la quale evidenziava come la serie di comportamenti e caratteristiche che tendiamo a classificare come maschili o femminili non siano in realtà che atteggiamenti culturalmente definiti e stereotipati, i quali, assorbiti sin dai primi anni dell’infanzia, tendono ad essere naturalizzati, ma non dispongono in realtà di alcun fondamento biologico legato alla differenza tra i sessi. Le diverse forme sociali in cui si esprime l’appartenenza ad un genere non sarebbero dunque frutto di una differenza naturale che si manifesta nei nostri atteggiamenti, nel nostro modo di vestire o in quella nutrita serie di stereotipi che oppongono da sempre il femminile al maschile, bensì di complessi costrutti culturali che tendono a circoscriverci in precise aspettative sociali circa ciò che dovremmo essere. 

Giulia Mecozzi

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie per questa bellissima e attualissima riflessione!