Gaza è martoriata dalle bombe. La popolazione è allo stremo, la Cisgiordania occupata sempre più stretta nella morsa dell’assedio. Sarebbe facile – troppo facile – fare la conta dei morti, degli espropri, delle scuole distrutte, degli ospedali cancellati. Ridurre tutto a numeri, a grafici, a statistiche.
Ma oggi vorrei fare il contrario: voglio raccontare le voci di chi resiste. Le voci di pace, di speranza, che ancora si levano da quei territori devastati, occupati, disumanizzati da Israele. Voglio umanizzarle, restituire loro il volto, il nome, la dignità. Lo farò attraverso tre storie.
Tre vite. Tre voci. La prima è quella di un giornalista, che ha scelto di restare. La seconda è di una giovane pittrice, fuggita poco prima del disastro. La terza è quella degli operatori sanitari, di coloro che sono lì per aiutare e vengono uccisi.
Rami Abu Jamous
Rami Abu Jamous è un giornalista palestinese, fondatore dell’agenzia Gaza Press, che per anni ha offerto supporto e traduzioni ai giornalisti occidentali. Dopo l’inizio della guerra, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento insieme alla moglie e al figlio Walid, di appena due anni e mezzo.
Prima Rafah, poi l’esilio a Deir al-Balah, poi ancora Nuseirat: sempre in fuga, sempre braccati, intrappolati in quello che Rami stesso definisce un campo di concentramento a cielo aperto. Dopo un breve cessate il fuoco, è tornato nella sua casa. Ma nulla era più come prima.
Dal 28 febbraio 2024, su Orient XXI, Rami pubblica Un diario da Gaza. La sua voce, calma, lucida, spietatamente onesta, racconta l’occupazione, la morte, la sopravvivenza quotidiana. Ogni suo scritto è intriso del dolore del suo popolo, un dolore che ricorda quello di Milano nel 1943, che Salvatore Quasimodo immortalò attraverso i suoi versi.
Gli amici gli chiedono certezze, risposte, speranze. Ma lui non riesce a darne, perché in questa guerra di certezze ce n’è solo una, come scrive lui stesso: lo sterminio del popolo palestinese è pianificato, sistematico, e mira a distruggere ciò che rende un popolo tale – le scuole, gli ospedali, i centri culturali, e soprattutto i giornalisti e i medici, custodi della verità.
Una massima del giornalismo dice:
Se uno dice che piove e un altro che c’è il sole, il giornalista non riporta entrambe le versioni: apre la finestra e guarda.
E questo fa Rami. In mezzo alle bombe, ai droni, ai carri armati, apre la finestra. Guarda. Racconta. Scrive. E mentre scrive, con una mano tappa le orecchie del piccolo Walid, cercando di convincerlo che il fragore delle bombe sono solo fuochi d’artificio.
Come ne La vita è bella, dove Benigni trasforma la tragedia di Auschwitz in un gioco, anche Rami cerca di proteggere suo figlio con la fantasia. Ma non è un gioco. E Walid, giorno dopo giorno, lo capisce. Capisce che il futuro, forse, non arriverà.
Rami, per il suo Diario da Gaza ha ricevuto tre importanti premi al concorso Bayeux per i corrispondenti di guerra. È sopravvissuto. E per questo è una voce di speranza. Una voce che, tra le macerie e i corpi, prova ancora a raccontare.
Una voce che, come in Blade Runner, guarda la speranza andare via “come lacrime nella pioggia”.
Malak
La seconda è una storia di arte. Di bellezza. Di resistenza.
L’arte, dice qualcuno, è l’unico vero segno del passaggio dell’essere umano sulla terra. E per i palestinesi, l’arte è molto di più: è identità, è memoria, è sopravvivenza. Malak aveva tredici anni quando Francesca Albanese – relatrice ONU per i Territori Palestinesi Occupati – vide per la prima volta una sua opera. Era il 2010. Malak studiava in una scuola dell’UNRWA, e Francesca restò colpita da quel dipinto. Voleva comprarlo. Ma Malak, con il viso paffuto e una voce ancora infantile, le disse che doveva prima chiedere a suo padre, noto pittore di Gaza, perché non sapeva che prezzo dare.
Da allora, Malak ha continuato a dipingere. E nell’ottobre 2023, pochi giorni prima del 7, è riuscita a ottenere una borsa di studio per Londra. Quando le bombe hanno cominciato a cadere, la sua famiglia era ancora a Gaza.
Per fuggire, hanno dovuto pagare ventimila dollari a un’agenzia egiziana. Il ricongiungimento non è stato facile: diverse udienze, molti rifiuti. Essere palestinese, in certi tribunali, sembra sinonimo di essere pericoloso. Ma alla fine, hanno ottenuto i visti.
Durante una cena a Londra, Malak racconta a Francesca la sua storia, le sue lacrime, la sua gratitudine. Racconta anche della sua ultima opera: una Guernica di Gaza, in bianco e nero.
“Non ci sono altri colori” dice. “Non ora.”
Sull’enorme tela: corpi straziati, edifici sventrati, un uomo disperato su un carretto. Un’opera cruda. Eppure, colma di speranza. Perché è testimonianza. È voce. È resistenza.
Malak è riuscita a portare la bellezza – quella vera, che nasce nel dolore – in un Occidente spesso silenzioso e complice. La sua storia conta, perché è il segno vivente che l’identità palestinese non può essere cancellata.
Gli operatori sanitari e i medici
Tutti abbiamo in mente la foto del dottor Hussam Abu Safiya, che da solo, con il camice indosso avanza tra le macerie incontro ai carri armati israeliani. La sua è una storia famosa, la storia del primario dell’ospedale Kamal Adwan, bombardato da Israele. Ma non è l’unica. Con questa terza storia, o storie voglio ricordare i medici, gli operatori sanitari, oltre mille uccisi da Israele. Pensate il paradosso euleriano nella cosa; tu sei un medico, sei in un ospedale senza carburante, farmaci, anestetici ad amputare gli arti di bambini, sei a Gaza, nel mezzo di un genocidio per aiutare, per fornire le tue conoscenze in aiuto alla popolazione martoriata e diventi un bersaglio. Il solo fatto di avere un camice ti rende un bersaglio per i cecchini che ti sparano addosso. Questo è l’ennesimo atto inconcepibile di una non guerra, come quando poche settimane fa i soldati israeliani hanno giustiziato a sangue freddo 15 paramedici in delle ambulanze che correvano a soccorrere chi non ce la stava facendo. A Gaza se indossi un giubbotto con la scritta press sei un bersaglio, se indossi un camice sei un bersaglio. E quella foto, di quel coraggioso dottore ormai scoraggiato che va incontro ai soldati sarà negli anni un simbolo della resistenza, della resistenza dei medici palestinesi che fanno il possibile senza nessun mezzo, perché di mezzi non ce ne sono. Questa è una strage contro tutti, contro un popolo, e si urliamolo che è un genocidio quando distruggi ospedali e luoghi di istruzione con scuse sempre uguali è genocidio, quando affami una popolazione è genocidio, urliamolo dalle nostre case, con i nostri pc, nelle nostre piazze, per Hussam, per i giornalisti, per i medici e per tutto il popolo palestinese.
Io voglio fare il giornalista.
Voglio aprire quella finestra.
Voglio dare voce a queste storie.
Perché anche tra le bombe, anche nelle macerie, può esistere amore. Può esistere speranza. E forse, davvero, un pennello, una penna, e un aquilone bianco possono più di un carro armato.
I palestinesi – dalla Cisgiordania di No Other Land, vincitore di un Oscar e con uno dei suoi registi arrestati, fino alla Gaza del genocidio – parlano. Con l’arte. Con le parole. Con la poesia. Che le oltre 54.000 vittime non siano mai dimenticate e noi con le nostre penne possiamo dare speranza a chi forse la sta perdendo.
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