4 aprile 2023

Il nichilismo e la logoterapia

La società occidentale non è mai stata così confusa come in questo secolo. Sembra che l’Occidente (che non è un blocco unico ma è diviso in due: mondo anglosassone e vecchia Europa) abbia perso molti dei riferimenti culturali che lo hanno sostenuto per secoli.

Non è detto che sia un male: ogni valore perduto è soltanto un cambiamento, perché ad esso ne succedono altri. Così è successo durante la Rivoluzione francese, così è accaduto con la sconfitta dei nazionalismi nella Seconda Guerra Mondiale. Nel primo caso, la decapitazione di un sovrano ha permesso lo sviluppo (seppur sanguinario) del germe democratico; nel secondo, lo sciovinismo più becero ha lasciato spazio al valore della convivenza pacifica di popoli e nazioni. Che poi quel valore sia stato tradito negli anni successivi non nega che esso, sulla carta, sia rimasto: nessuno inneggia alla guerra come facevano i futuristi.

Ne consegue che ogni cambiamento nello spirito di una società sia fisiologico: queste trasformazioni non sono da intendersi nemmeno in chiave positivista, cioè come se siano sempre migliori delle precedenti, bensì vanno interpretate in chiave storica, ovvero come inevitabili. L’Occidente, almeno da un secolo, sta mutando, e lo si può notare dalla perdita della religione, la quale, bisogna ricordarlo, è ben diversa dalla fede. Mentre quest’ultima riguarda la spiritualità individuale, la prima parola indica l’espressione pubblica della credenza, veicolata anche (e soprattutto) tramite la cultura. Per intenderci: una persona è libera di scegliere se pregare o no, ma le chiese sono patrimonio di tutti, atei inclusi.

Se nell’epoca dei Lumi la critica alla Chiesa era “relegata” alle maggiori menti del periodo, dalla seconda metà del Novecento il modello sociale del cattolicesimo sta svanendo. È scomparsa l’idea di Dio, com’era stata teorizzata (ma anche vissuta) da Nietzsche. Fin qua, non c’è niente di male, tranne per i cattolici ferventi. Il nocciolo della questione però gira intorno proprio a questo punto: sparito Dio (ed è stato il valore più grande perduto negli ultimi secoli), da chi è stato sostituito? Che nuovo orizzonte culturale e sociale si è spalancato in Occidente?

Come ancora una volta profetizzato da Nietzsche, è sorto il nichilismo: la sensazione di smarrimento ontologico per eccellenza. L’idea di Dio infatti non è stata rimpiazzata, e l’uomo vive in un limbo, vittima dell’assenza di significato. Perché proprio di questo si parla: Dio dava un senso alle cose ultime, e cioè alla morte. La fase nichilista non è stata ancora superata, ma anzi è diventata stagnante. Non deve sembrare al lettore che si scriva per sentito dire o in maniera troppo astratta: oggi più che mai, il perché pare assente dalle vite di molti umani. Lo dimostrano i casi di depressione, che sono molti, troppi, e i social che producono sull’individuo un effetto straniante: ci si è immersi, storditi, e alla fine si circola su di essi proprio per questo senso di oblio che genera all’interno della persona. Ma soprattutto, mancano risposte al perché.

A questo punto verrebbe da chiedersi se è proprio necessario trovare, o dare, un senso all’esistenza. Si può vivere senza uno scopo? I letterati se ne sono occupati per primi, in maniera consapevole a partire da Camus, che con il suo Il mito di Sisifo, datato 1942, ha affrontato il tema dell’Assurdo esistenziale. Senza entrare nel dettaglio, e tralasciando gli straordinari capitoli in cui attacca i filosofi esistenzialisti (accusati di trovare in Dio una giustificazione per il senso della vita), il Premio Nobel per la letteratura sosteneva la necessità dell’uomo di agire in maniera stoica contro questa condizione di assenza di significato. Il senso della vita diventa sopportare il peso, come Sisifo con il macigno, del suo non-senso. È chiaro come questa posizione, sebbene affascinante, acquisti valore soltanto in termini artistici, e non possa essere attuata nel sociale. Il rischio è quello di impazzire. Ma molti non stanno diventando, in maniera inconsapevole, dei Sisifo? Lo sforzo auspicato da Camus richiede uno sforzo eroico quasi impossibile da sostenere per l’uomo contemporaneo.

Viktor Frankl

Anche in questo caso, una soluzione può arrivare dalla Storia: l’umanità si scopre attraverso il tempo, il quale ne svela sia le qualità che le nefandezze. La crudeltà più grande commessa dagli uomini è stata il cercare di realizzare lo sterminio sistematico, metodico e terribile di persone considerate diverse da loro. Si sta parlando dei campi di sterminio nazifascisti: i lager. Proprio un sopravvissuto a quella terribile esperienza ha aperto un nuovo campo della psicanalisi e della lotta al nichilismo: la logoterapia di Viktor Frankl (1905-1997). Viennese, ebreo, viene rinchiuso dapprima nel lager di Theresienstadt, e poi ad Auschwitz. Sopravvissuto a quelle terribili esperienze, scrive subito dopo la sua liberazione Uno psicologo nel lager, dove racconta in prima persona non solo la vita nei campi, ma anche le sue riflessioni da professionista su come la macchina di sterminio toccasse le corde più intime degli internati. Narra anche la vita, non facile, dei sopravvissuti, che devono fare i conti con l’incomprensione della gente e la perdita delle persone care. Da qui scaturiscono delle riflessioni su come alcune persone, anche gracili, siano riuscite a sopravvivere, al contrario di altre il cui fisico prometteva più resistenza. A parte la fortuna, che come nota egli stesso gioca un ruolo essenziale, chi aveva uno scopo, un lume durante il lungo periodo passato nel lager, riusciva a resistere meglio rispetto a chi si lasciava andare, a chi non riusciva a trovare nessun appiglio in mezzo a tanta sofferenza. Frankl stesso dichiara che, con molta difficoltà, era riuscito a sopravvivere alla prigionia grazie alla volontà di riscrivere una sua pubblicazione scientifica, sequestrata al suo arrivo ad Auschwitz, e al desiderio di rivedere la moglie.

Quindi parte il ragionamento che lo porta a rinnegare la volontà di piacere di Freud e la volontà di potenza di Adler. L’essere-uomo, dice Frankl, non è soltanto il risultato di istinti sessuali repressi o del desiderio di superare un complesso di inferiorità, ma è dato anche dalla sua ricerca di un significato della vita. Da qui nasce il termine logoterapia, che contiene al suo interno la parola greca logos, che in una sua sfumatura vuol dire appunto significato. Il logoterapista aiuta le persone a trovare un significato all’interno dei loro momenti duri. Frankl inoltre sostiene che le cose o le persone che danno un senso alla vita cambino col tempo. Il logos non è quindi un concetto statico, bensì sempre in movimento, sempre in scoperta. E il logos è dentro di noi, sempre.

Ora si può comprendere per quale ragione la logoterapia potrebbe essere una delle armi contro il nichilismo, contro l’assenza del perché: lo psicanalista austriaco non basa le sue teorie su costruzioni astratte, ma sulla sua reale esperienza di vita, oltre il limite dell’umana immaginazione. Se anche Frankl è riuscito, nel lager, a trovare uno scopo nella vita, salvandosi addirittura, dovremmo tutti interrogarci se la situazione stagnante in cui l’uomo occidentale vive sia così irrisolvibile.

Riccardo Rosas

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