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I filosofi cristiani appartengono alla peggiore categoria dei pensatori: quelli che hanno troppe certezze. Nel caso dei cristiani però tutte le convinzioni si riducono a una, sovrabbondante e irremovibile: Dio c’è. Con questo presupposto qualsiasi problema filosofico perde la sua insormontabilità e, in fin dei conti, diventa quasi una questione di lana caprina, almeno agli occhi dell’uomo contemporaneo. Infatti, cosa importa del dogma della Trinità o della natura di Cristo? Chi si spinge a voler dimostrare in modo razionale l’esistenza di Dio?
In una società teocentrica, come quella europea fino all’età dei Lumi, tali questioni erano importanti, ma da quando la divinità non è più il cardine della comunità, o l’ateismo perlomeno è stato accettato concettualmente, ecco che il pensiero cristiano diventa debole e talvolta assume tratti orridi, come nella famosa “scommessa su Dio” di Blaise Pascal (1623-1662), esposta nel frammento 233 dei Pensieri. Il filosofo francese all’inizio si pone oltre la questione dell’esistenza divina:
Se c’è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, perché, non possedendo né parti né limiti, non ha alcuna proporzione con noi. Noi dunque siamo incapaci di conoscere non solo ciò che egli è ma anche se è.
Ma poco dopo, pur ammettendo l’inconoscibilità di Dio, egli assume come infallibile e giusta la morale cristiana:
Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene, e due cose da impegnare: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra ragione ha due cose da fuggire: l’errore e la miseria. La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno piuttosto che l’altro, perché bisogna necessariamente scegliere. […] Ma la vostra beatitudine? Valutiamo il guadagno e la perdita, scegliendo croce, cioè l’esistenza di Dio. Esaminiamo questi due casi: se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla.
Nel cercare di mettere sotto scacco l’ateo, Pascal paradossalmente tradisce il messaggio cristiano, riducendo l’esistenza di Dio a una mera questione utilitaristica. La ragione, che nella sua finitezza all’inizio del frammento sembra confermare la necessità dell’esprit de finesse nella conoscenza del divino, diventa alla fine l’unica arida motrice del pensiero pascaliano. In esso sono assenti il concetto di Rivelazione e l’attrazione spontanea che ogni cristiano dovrebbe provare verso Dio. La “scommessa su Dio” sembra quindi avere delle caratteristiche in comune, senza volerlo, con la filosofia scolastica (IX-XIV secolo), dove la ragione era il supporto necessario della fede, ma la fede stessa non veniva messa in discussione. In Pascal manca l’Uomo, con le sue sofferenze e i suoi timori che possono allontanarlo da Dio. Sotto questo aspetto, quindi, il filosofo francese non ha probabilmente molto da dire al mondo contemporaneo, che ha conosciuto il male più cupo, quello delle guerre mondiali e della varie forme di sottomissione e distruzione totale dell’uomo, fisiche, psicologiche e spirituali.
Ma proprio mentre la Seconda Guerra Mondiale impervia, il pensiero cristiano subisce un meraviglioso risveglio grazie a Simone Weil (1909-1943). Questa intellettuale, anch’essa francese, sviluppa nelle sue lettere, contenute nel libro L’attesa di Dio la sua filosofia religiosa soprattutto su due temi: la sventura e la volontà di Dio. Per Weil, la sventura è:
...uno sradicamento dalla vita, un equivalente più o meno attenuato della morte […] C’è vera sventura solo quando l’avvenimento che ha afferrato una vita l’ha sradicata, l’ha colpita direttamente o indirettamente in tutti i suoi aspetti: sociale, psicologico, fisico.
La sventura è quindi un concetto diverso dalla semplice sofferenza: è una maledizione, una tortura silenziosa che aliena l’uomo dalla sua esistenza. Ma in questi momenti, dice Weil, si è paradossalmente più vicini a Dio:
La sventura ha costretto il Cristo a supplicare di essere risparmiato […] Gli uomini colpiti dalla sventura giacciono ai piedi della Croce, quasi alla massima distanza possibile da Dio.
Lo sventurato vive perciò l’esperienza della redenzione, e nel momento in cui è più lontano dalla divinità allo stesso tempo è più vicino alla Salvezza, perché credere e amare quando tutto è perduto è l’accettazione totale dell’insegnamento di Gesù Cristo. Weil quindi va quasi a scontrarsi con l’idea del male agostiniana: il non-essere, il non-divino. Dio è anche dolore, Dio forse in qualche modo è anche male. La filosofa francese riscopre quindi innanzitutto l’umanità di Dio e soprattutto non cerca di seppellire il dolore ma anzi lo eleva, secondo una modalità assolutamente nuova. Ma forse il passo che segue è quello più importante:
Non bisogna credere che il peccato sia una distanza ancora più grande. Il peccato non è una distanza. È un cattivo orientamento dello sguardo.
Il cristianesimo, in particolare quello cattolico, ha trasferito il concetto di colpa dalla sfera della semplice infrazione, come è nell’Ebraismo, alla sfera della morale, trasformandola in peccato. Weil riporta quindi anche l’idea di peccato a una dimensione più umana, meno schiacciante. Si potrebbe dire che il peccato rimane un errore, ma non morale. Invece, parlando della volontà divina, Weil si concentra sul progetto che sente Dio prepari per lei:
Mi pare che la volontà di Dio non sia che io entri nella Chiesa adesso. […] Quando mi figuro concretamente e come qualcosa di imminente l’atto attraverso il quale potrei entrare nella Chiesa, nessun pensiero mi procura tanta pena quanto quello di separarmi dall’immensa e sventurata massa dei non credenti. Avverto il bisogno esistenziale, e credo di poter dire la vocazione, di passare fra gli uomini e i diversi ambienti umani fondendomi con essi […]. Desidero conoscerli per poterli amare quali sono.
Weil potrebbe sembrare anticlericale, ma non lo è: il suo rifiuto è, di nuovo in maniera paradossale, la conferma del suo essere cattolica nel senso più autentico di questo termine, universale. La filosofa non vuole entrare nella comunità cristiana perché ciò significherebbe rinunciare a quella parte dell’esperienza umana che è estranea alla Chiesa come istituzione: un battezzato non potrà mai del tutto fraternizzare con un operaio comunista, ad esempio, perché il credo dell’operaio è diverso dal suo. Ma in assenza di comunità, si può parlare di Dio anche con chi ne è distante: forse, Weil critica in maniera velata la Chiesa che si occupa soltanto dei suoi fedeli? Di sicuro, suggerisce che la strada verso Dio può passare anche attraverso la sola indagine personale.
Pascal e Weil hanno declinato la loro fede in Dio in maniera del tutto diversa: il primo ha cercato, in maniera un po’ goffa e antica, di ricondurre Dio alla razionalità. Il suo scopo è stato quello di portare nuovi fedeli alla Chiesa. La seconda, partendo comunque dalla certezza del divino, ha condotto una ricerca individuale, quasi sul modello dei mistici ortodossi, sul senso del dolore, dello spirito, delle istituzioni ecclesiastiche. Weil è la teologa dell’uomo contemporaneo, ricco di dubbi e affamato di spiritualità. Se Pascal guarda dalla terra verso il Cielo, Weil guarda da Dio verso l’Uomo.
Riccardo Rosas
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