Avevo capito però che c’era qualcosa oltre la grammatica. La possibilità del ritmo e delle storie.
Il panorama letterario italiano negli ultimi anni è diventato stantìo. I libri che ormai quotidianamente (e già questo è significativo della loro qualità!) escono anche da grandi case editrici ricalcano vecchi tópos con forme spendibili nel mercato. Basti pensare a quanti gialli vengano pubblicizzati come grandi portatori di tematiche storiche o sociali. La verità è che la capacità di uno scrittore è ormai diventata relativa: ciò che conta è accontentare il pubblico letterario, sempre più borghese e alla ricerca di rassicurazioni, non di stimoli.
A primo impatto, vedendo la biografia dell’autore (è nato e vive a Cagliari) e l’evento principale da cui il racconto prende spunto, ovvero il terribile incendio che devastò nel 2021 il massiccio del Montiferru (OR), potrebbe sembrare un romanzo regionale, interessante soltanto per i sardi.
In realtà, Annìle (che in sardo indica un casolare per agnelli) offre un’ampia riflessione sulla natura e il rapporto con l’uomo. È molto difficile individuare la trama, perché in effetti non è l’aspetto più importante del racconto: c’è una bambina, Maddalena, che crescerà fino a diventare una donna e c’è Annìle.
Chi era Annìle? La prima volta che lo vidi aveva le sembianze di una volpe. Un rumore di passi dal fitto del bosco e un lamento di vecchio.
Questo strano essere che abita il bosco del Montiferru assume varie sembianze, ed è un punto interrogativo per tutti gli abitanti. Ma grazie a Maddalena, quel vecchio/volpe/entità prende realmente vita, e inizia a parlare, raccontando storie e soprattutto creando la sua storia.
La A è la lettera più importante perché comincia tutto. Per esempio: è l’inizio del tuo nome, Annìle.
Annìle è, in sostanza, la personificazione di un legame, è la storia del rapporto, travagliato ma anche sincero, tra l’uomo e la natura. Quello che più stupisce è la forma del racconto, simbolica e densa, che si sviluppa non appunto attraverso una trama, o un’azione, bensì un “rimuginare” interno, quasi metaletterarie.
Mantega ha una scrittura, nonostante sia ancora un po’ acerba, sincera e per nulla ruffiana, che deriva dal suo amore per la Sardegna e per la letteratura. È una scrittura immaginifica e al tempo stesso concreta, viscerale. È il particolare che si trasforma in universale. Può essere questa la via per rivitalizzare il nostro mondo letterario?
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