Nel corso della storia, arte e scienza sono sempre stati considerati mondi separati, a volte addirittura opposti. L’arte si fonda sull’intuizione, l’estetica e l’emozione, mentre la scienza si basa sulla razionalità, sull’osservazione oggettiva e sul metodo empirico. Tuttavia, questa dicotomia è relativamente recente: basti pensare a figure come Leonardo da Vinci, che univano genialità artistica e spirito scientifico, per comprendere come l’incontro tra queste due discipline sia non solo possibile, ma anche fecondo.
Oggi, in un’epoca caratterizzata da sfide globali e da tecnologie sempre più sofisticate, il dialogo tra arte e scienza diventa urgente e necessario. In questo contesto nasce l’ArtScience (o SciArt), un ambito interdisciplinare in cui artisti e scienziati collaborano per generare nuove forme di conoscenza e aprire immaginari alternativi sul mondo. Non si tratta soltanto di abbellire concetti scientifici o visualizzare dati: l’ArtScience costruisce veri e propri processi creativi condivisi, dove la sensibilità artistica pone nuove domande e la ricerca scientifica ispira nuovi linguaggi.
Abbiamo incontrato Anna Lora, giovane performer e studentessa di ArtScience in Olanda, per approfondire questa disciplina e scoprire cosa significhi oggi costruire un percorso che attraversa arte, scienza e tecnologia
Che cos’è l’ArtScience e cosa ti ha spinto a scegliere questo corso di studi?
L’ArtScience è nato negli anni ’80 grazie a Frans Evers, partendo da una sua tesi di laurea sul concetto di sinestesia. All’epoca, all’AIA (Royal Academy of Art dell’Aia), esisteva già il corso di Sonology, dedicato all’arte del suono, ma molti studenti sentivano il bisogno di esplorare anche l’aspetto visivo. Evers fu invitato come docente esterno e da lì nacque un dipartimento parallelo, che lui stesso ha poi raccontato nel libro Academy of Senses.
Il nome “ArtScience” è stato scelto per riflettere proprio questo approccio sinestetico e multidisciplinare: non solo arti visive o sonore, ma una fusione di elettronica, coding, performance, installazioni, biologia e molto altro. Per me, l’ArtScience è un modo per esprimersi su diversi livelli sensoriali, mantenendo però una certa rappresentazione semi-oggettiva della realtà.
Quello che mi ha spinta a scegliere questo percorso è stata la grande libertà offerta dal dipartimento, l’elasticità nel metodo e, soprattutto, la comunità. Per la prima volta mi sono sentita accolta in un ambiente che mi comprendeva e valorizzava in ogni mia sfaccettatura.
Com’è strutturato il tuo percorso accademico? Ci sono progetti o corsi che ti hanno colpita particolarmente?
Nel primo anno di Bachelor ci sono corsi obbligatori, come Quick & Dirty, che è un’introduzione sperimentale e molto libera all’ArtScience. Lì ho lavorato bendata, manipolato materiali insoliti e stimolato i sensi in modi inaspettati, per sviluppare prospettive nuove. È anche un momento importante per creare connessioni con i compagni.
Ogni semestre è scandito da due presentazioni: una all’inizio per condividere idee in fase di sviluppo, e una alla fine per mostrare il lavoro finito. Dal secondo anno in poi, ci sono uno o due corsi obbligatori e tanti corsi opzionali che si possono scegliere in base ai propri interessi.
ArtScience è un’interfaculty: fa parte sia dell’Accademia delle Arti che del Conservatorio. Ho avuto la possibilità di seguire corsi nei dipartimenti di Sonology e Composizione, vivendo momenti di scambio intensivo tra i tre settori. Alcuni dei corsi che mi hanno colpita di più sono stati quelli legati alla performance, all’uso della luce e quelli più tecnici sul suono. Ma devo dire che gran parte della mia formazione arriva dal confronto costante con i miei compagni e dal feedback collettivo.
In che modo la tua esperienza in Olanda ha influenzato il tuo modo di vedere arte e scienza?
In Olanda ho trovato un approccio molto più pratico rispetto a quello italiano. Il famoso detto “fake it till you make it” mi ha spronata a buttarmi, a sperimentare senza paura, anche in campi che inizialmente non mi appartenevano, come l’elettronica o il coding. Questo atteggiamento mi ha dato strumenti preziosi per la mia ricerca artistica e mi ha aiutata a costruire un pensiero creativo più autonomo e strutturato.
Qual è stato finora il progetto più interessante a cui hai lavorato?
Uno dei progetti a cui tengo di più si chiama Proboscide. È una performance interattiva in cui la voce, trasmessa attraverso tubi di gomma, viene modulata e percepita direttamente dal pubblico. Io e gli altri performer portiamo i tubi alle orecchie delle persone, che così percepiscono suoni e vibrazioni in modo molto intimo.
L’ambiente è immersivo: buio, illuminazioni mirate, costumi sgargianti e anche una fragranza che ho creato appositamente per l’esperienza. La performance è stata presentata per la prima volta al festival “10-10”, poi selezionata da un curatore e riproposta al cinema più antico di Amsterdam. È stata anche parte del festival Rewire, a West (AIA), dove sono stati dedicati spazi specifici agli studenti di ArtScience.
Quali sono le principali differenze tra il sistema universitario italiano e quello olandese?
La differenza più grande, per me, è l’assenza di una rigida gerarchia. I docenti olandesi, soprattutto quelli del mio dipartimento, sono prima di tutto artisti attivi, curiosi e disposti al dialogo. Il rapporto con gli studenti è molto più alla pari: si parla, si discute, si cresce insieme.
Come si intrecciano arte e scienza nel tuo lavoro quotidiano?
Nel mio lavoro, arte e scienza si fondono attraverso la curiosità e il desiderio di osservare il mondo in modo oggettivo, pur mantenendo una forte componente sensoriale. Mi è capitato, ad esempio, di camminare e sentire un odore particolare, che mi ha colpita al punto da volerlo riprodurre chimicamente. Da lì è nata una performance intera. Per me, tutto parte da sensazioni reali che poi elaboro attraverso strumenti e metodi scientifici e artistici insieme.
Quali artisti, pensatori o scienziati ti influenzano maggiormente?
Mi sento molto ispirata dalla mia famiglia: mio padre, mia madre, mio fratello, mia zia – tutti molto sensibili all’arte. Tra i pensatori che mi hanno influenzata ci sono sicuramente Rudolf Steiner, Goethe e il metodo Lichtenberg legato al canto. Però, spesso, mi lascio ispirare più dalle esperienze che dai nomi. Amo scoprire artisti nuovi attraverso installazioni o performance, senza sapere chi siano in anticipo.
Come vedi il futuro dell’ArtScience?
Sono preoccupata. In Olanda, il governo ha tagliato molti fondi all’educazione e cerca sempre di più di regolare e incasellare le istituzioni. Questo rischia di soffocare lo spirito libero e semi-anarchico che ha caratterizzato il dipartimento fin dalla sua nascita negli anni ’80. ArtScience vive di contaminazioni e libertà, e sarebbe un vero peccato perderle.
Hai già un’idea di cosa vorresti fare dopo la laurea?
Il mio sogno è diventare una performer itinerante, portare le mie opere in giro per il mondo. Vorrei continuare a emozionare, scuotere il pubblico, far provare brividi – nel bene e nel male. Voglio che le mie performance siano esperienze vive, forti, memorabili.
C’è un messaggio che vuoi lasciare a chi vorrebbe intraprendere un percorso simile?
Invito chiunque senta questa vocazione a sfidare i limiti, a cercare innovazione, ad accettare il rischio di stare fuori dagli schemi.
Il sistema ci vuole quadrati, ma noi siamo sfere. O magari qualcosa che non ha nemmeno forma. E va bene così.
Anna Lora
Federico Valenti
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