C’è un paradosso che attraversa la nostra epoca: non è che stiamo diventando più ignoranti, è che non sappiamo più distinguere quando lo siamo. L’informazione non manca, anzi: scorre in abbondanza, sotto forma di testi ben scritti, fluidi, rassicuranti. Il punto è che questa abbondanza produce un effetto ottico: confonde il sembrare con l’essere, la forma con la sostanza.
I nuovi sistemi di intelligenza artificiale generativa ne sono l’esempio più evidente. Non costruiscono idee, non verificano ipotesi, non “capiscono” davvero ciò che scrivono. Si limitano a proiettare la parola più probabile dopo quella che è venuta prima, sulla base di un’immensa statistica linguistica. È un gioco di predizione, non di conoscenza. Ma siccome il risultato è elegante e coerente, finiamo per scambiarlo per sapere.
La differenza rispetto alle vecchie bufale è enorme. Quelle erano rozze, gridate, facilmente riconoscibili. Bastava un po’ di senso critico per individuarne l’inganno. Oggi invece l’errore non si mostra. Non si annuncia con titoli urlati o toni militanti. Si nasconde dietro la naturalezza di una prosa scorrevole, dietro un lessico che ricorda quello dei manuali scientifici o delle enciclopedie. In questo modo, il falso non appare più come deviazione, ma come possibilità legittima.
La questione si complica ulteriormente perché questi sistemi non solo parlano bene, ma parlano come vogliamo noi. Se poniamo una domanda suggerendo un punto di vista, il modello lo rafforza. Se insinuiamo un dubbio, lo asseconda. Non è malizia, è la logica stessa della sua architettura: restituire la risposta più coerente con il contesto. Così il vecchio “confirmation bias” — la tendenza a cercare conferme delle proprie convinzioni — diventa un automatismo tecnico, integrato nella macchina. Non siamo più noi a selezionare solo ciò che ci fa comodo: è l’algoritmo che ci consegna, già confezionata, una realtà che sembra aderire alle nostre aspettative.
Immaginate di chiedere a un sistema perché i vaccini sarebbero pericolosi. Riceverete un testo articolato, che pur con qualche cautela riproduce argomenti contrari. Domandate invece perché siano sicuri, e otterrete il discorso opposto. Non c’è convinzione, c’è pura adattabilità. È una conoscenza “specchio”, che riflette la domanda anziché guardare al mondo.
Qui sta la vera trappola: non si tratta più di discernere tra vero e falso, ma di capire come e perché una risposta sia nata. L’illusione cognitiva è completa quando crediamo di avere imparato qualcosa solo perché qualcuno — o meglio, qualcosa — ci ha risposto con autorevolezza di tono. La conversazione con un algoritmo ci dà la sensazione di colmare una lacuna, ma in realtà la riempie solo con parole ben disposte, prive di radici.
A cascata, questa illusione genera un fenomeno ancora più insidioso. Chi utilizza un modello linguistico e rilancia i suoi testi come se fossero propri si appropria, di riflesso, di un’autorità che non possiede. Così proliferano opinionisti e divulgatori che costruiscono competenza apparente senza passare dalla fatica dello studio. L’algoritmo diventa fonte di credibilità trasferita, e l’atto stesso di interrogare la macchina si trasforma in performance di sapienza.
Nemmeno le statistiche rassicuranti servono a difenderci. “Accuratezza al 90%”, “successo nei test professionali”: numeri che impressionano, ma che nascono da compiti standardizzati, ben delimitati. La vita reale, invece, non è fatta di quiz a scelta multipla. È fatta di domande aperte, di dubbi mal formulati, di curiosità quotidiane. È lì che il modello, pur fluente, mostra la sua fragilità.
Il risultato è un panorama informativo piatto, dove ogni voce suona credibile, ogni testo appare ugualmente solido, ogni risposta sembra colmare un vuoto. E invece quel vuoto resta. Solo che non lo vediamo più.
Per questo serve un nuovo tipo di alfabetizzazione, che non riguarda solo il contenuto ma il processo. Dobbiamo imparare a domandarci non soltanto “che cosa mi sta dicendo questo testo?”, ma “da dove nasce? secondo quale logica è stato generato?”. È un cambio di prospettiva radicale: il linguaggio non basta più come garanzia. Bisogna risalire alla sua genealogia.
Il futuro che ci attende non sarà invaso da menzogne urlate, ma da frasi impeccabili che sembrano vere perché suonano vere. Non è un problema di malafede, ma di struttura. Ed è qui che rischiamo di smarrirci: non davanti all’ignoranza, ma davanti alla sua imitazione ben confezionata.
Giovanni Di Trapani
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