Il testamento di Tito e Nella mia ora di libertà, due brani che chiudono due album capolavoro di Fabrizio De André, invitano ad uscire dall’individualismo per aprirsi alla comunità per combattere un sistema corrotto
Nella mia ora di libertà, invece, è l’ultimo brano del concept Storia di un impiegato del 1973: è la tragica odissea di un uomo anonimo che decide di ribellarsi al potere costruendo una bomba ma l’attentato non va a buon fine e, per tale motivo, finisce in galera.
La Giudea del I secolo non è tanto diversa dall’Italia degli anni di piombo, attraversata da sequestri e attentati dinamitardi, poiché in entrambi i contesti appare minacciosa e devastante la figura pervertita del potere.
Mentre muore sulla croce, Tito lancia un’invettiva feroce contro i presenti mettendo alla berlina la loro ipocrisia e il loro fanatismo religioso. Il potere ha come obiettivo la sua conservazione; coloro che lo detengono sono dominati da un unico desiderio: quello di continuare a possederlo fino alla fine. Per perseguire un tale disegno aggirano la legge e la piegano alla propria volontà; non a caso Pasolini affermò che nulla è più anarchico del potere! Le leggi, le stesse promulgate dal potere, sono create per garantire ordine ed equilibrio all’interno delle comunità; ma cosa accade quando gli stessi potenti le infrangono pur di mantenere il comando? Questo denuncia Tito sulla croce: anche lui ha trasgredito i dieci comandamenti, «senza provare dolore», così come hanno fatto quelli che occupano le alte sfere del potere, sacerdoti e governatori, eppure mentre loro rimangono intoccabili, lui è costretto a subire la condanna a morte.
Quante volte la Storia è stata attraversata da personalità del genere, soprattutto da politici senza scrupoli che violano la legge oppure ne creano di nuove pur di evitare processi e non essere incriminati, scampando così alla galera. Si pensi, come esempio non tanto recente, le numerose leggi ad personam promulgate da Silvio Berlusconi mentre ricopriva la carica di Presidente del Consiglio.
E io contavo i denti ai francobolli
Dicevo: “Grazie a Dio”, “Buon Natale”
Mi sentivo normale(La bomba in testa)
L’impiegato, distante secoli dal ladrone sulla croce, è un personaggio senza nome, è sposato e conduce un’esistenza servile e insipida. La sua colpa è quella di subire il potere – personificato dal padre, dal Parlamento e dal lavoro. L’impiegato, ormai stanco dei continui abusi logoranti, decide di costruire un ordigno esplosivo per ribellarsi ad una condizione asfissiante.
Per conservarsi il potere si serve di “pedine”, cioè degli ultimi che, senza diritti e disagiati, appaiono indifesi. Chi è al comando non fa altro che sfruttare i rapporti con il prossimo, privandoli della loro calorosa umanità per piegarli alle logiche dell’utile e del profitto, cioè dell’elargire favori per avere qualcosa in cambio. Il potere promette, falsamente, una vita facile, fatta di privilegi e di benessere ma, alla fine, ci si ritrova schiacciati da un’esistenza anonima e sfruttata. Questa realtà è tipica soprattutto del mondo del lavoro; si pensi alle numerose notizie – numerose negli ultimi tempi - che denunciano condizioni lavorative sempre più logoranti a causa dei massacranti ed inumani turni lavorativi e della misera paga. Il potere degrada il prossimo per trasformarlo in un mezzo che gli permetta di diventare ancora più forte.
Chiunque si ribella ai potenti, purtroppo, è destinato ad una fine crudele e spietata. Il ladrone, infatti, muore sulla croce.
Ma adesso che viene la sera ed il buioMi toglie il dolore dagli occhi(Il testamento di Tito)
Mentre l’impiegato viene condannato al carcere e alla pubblica umiliazione, soprattutto da parte della stampa e della pubblica opinione.
Tante le grinte, le ghigne, i musiPoce le facce, tra loro lei(Nella mia ora di libertà)
Il potere detesta sia chi lo mette in discussione sia chi potrebbe costituire una minaccia allo status quo. Per questo motivo si serve della legge, quella stessa che infrange, per condannare al silenzio tutti quelli che rappresentano un pericolo. Uomini e donne che sono stati umiliati, emarginati, perfino uccisi perché dovevano essere messi a tacere. Si pensi a quanti giornalisti sono stati messi al bando, allontanati dalla televisione pubblica, oppure sono stati vittima di attentanti, com’è successo negli ultimi giorni al giornalista Sigfrido Ranucci. La loro colpa è quella di non essere scesi a compromessi con la corruzione.
Bisogna ricordare che il solo difetto di Tito e dell’impiegato è quello dell’individualismo, cioè hanno fallito nei loro progetti perché hanno vissuto una battaglia in solitaria. Nella loro ora più buia, però, si aprono all’altro: il ladrone osservando Gesù e il suo sguardo d’amore («la pietà che non cede al rancore», l’impiegato passando del tempo assieme agli altri carcerati.
Nell’ultimo periodo, purtroppo, si assiste sempre più ad un’inesorabile chiusura in se stessi, ognuno guarda al proprio orizzonte limitato e si preoccupa solo delle proprie necessità e dei propri bisogni; ne consegue una frammentarietà che compiace il potere perché sinonimo di debolezza e di disorientamento. Si pensi a quanti si sono rifiutati di scendere e manifestare nelle ultime settimane per la tragica situazione a Gaza. Lungi dal voler affermare che esistono problemi di serie A e altri di minor rilevanza ma bisognava guardare allo sciopero e alla manifestazione come un primo passo verso la riappropriazione di quella consapevolezza di una comunità capace di tener testa ad ogni tipo di ingiustizia!
I soprusi e le illegalità del potere sono numerosi e coinvolgono ognuno; per questo motivo il cantautore genovese, con le figure del ladrone e dell’impiegato, due emarginati, invita ad abbandonare la propria visione egoistica della realtà per indentificarsi in una comunità più vasta con la quale abbracciare una più efficace resistenza contro un sistema immorale e morente.
Però bisogna farne altrettantaPer diventare così coglioniDa non riuscire più a capireChe non ci sono poteri buoni(Nella mia ora di libertà)

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