21 novembre 2025

Il passo silenzioso degli umanoidi: la soglia invisibile che stiamo attraversando

La corsa globale alla robotica antropomorfa segna l’inizio di una trasformazione che supera il perimetro della tecnica e tocca le strutture profonde delle nostre società, dal lavoro alla sicurezza, fino alla percezione stessa dell’umano.

L’annuncio diffuso da UBTech, con la prospettiva concreta di mettere in campo contingenti numericamente ampi di umanoidi autonomi, non è soltanto un avanzamento tecnologico: è un segnale culturale. È l’apertura improvvisa di un varco che fino a ieri sembrava confinato alla fantascienza e che oggi ci chiama, con una certa urgenza, a misurare le implicazioni di una presenza artificiale dotata non solo di abilità meccaniche, ma di quella mobilità intelligente che apparteneva, fino a poco tempo fa, esclusivamente al corpo umano. Il fenomeno, osservato nella sua interezza, non attiene più al laboratorio o al mercato delle macchine evolute; riguarda un cambio di paradigma che investe simultaneamente l’economia, la sicurezza pubblica, gli equilibri geopolitici, la psicologia sociale e, in ultima analisi, la nostra stessa idea di convivenza civile. È un cambiamento silenzioso, perché si sta preparando da anni senza trovare un vero spazio nel dibattito pubblico, e solo ora inizia a manifestarsi nella sua portata sistemica.

L’impatto economico è forse il primo a emergere con chiarezza. Le economie che hanno già sperimentato forme avanzate di automazione sanno bene che la sostituzione della forza lavoro umana non avviene solo nei settori ripetitivi o a bassa qualificazione. La robotica antropomorfa apre un fronte del tutto nuovo, perché penetra in quelle attività caratterizzate dal movimento nello spazio, dalla manipolazione fine degli oggetti, dall’interazione diretta con ambienti variabili. È il caso della logistica, della vigilanza, dell’assistenza operativa, dei servizi avanzati. Qui l’umanoide non è più un braccio meccanico o un veicolo automatizzato: è un corpo sintetico che interpreta, si orienta, compie scelte elementari, e si colloca così accanto al lavoratore umano, pronto a sostituirlo o a ridurre drasticamente il fabbisogno di forza lavoro. La conseguenza è una possibile concentrazione ulteriore del valore nelle filiere dell’innovazione, creando distanze difficili da colmare tra Paesi produttori di tecnologia e Paesi che la subiscono, tra imprese che automatizzano e imprese che non possono farlo, tra lavoratori complementari e lavoratori ridotti all’irrilevanza economica. La robotica umanoide, in questo senso, annuncia un futuro in cui la questione sociale sarà nuovamente centrale, ma con parametri del tutto diversi rispetto al passato.

Accanto all’economia, si apre il capitolo della società e delle relazioni. L’introduzione di macchine che camminano, guardano, rispondono e svolgono compiti nei luoghi pubblici altera la percezione stessa della presenza dell’altro. Gli umanoidi creano un ambiente nuovo, un paesaggio sociale popolato da entità che imitano la forma umana senza possederne la vulnerabilità, la fragilità, la temperatura emotiva. Questo mutamento è tutt’altro che secondario, perché la convivenza civile si regge anche su codici impliciti, sulla prevedibilità dei comportamenti, sul riconoscimento reciproco di limiti e possibilità. I robot antropomorfi ridefiniscono questo equilibrio: introducono una forma di “presenza artificiale” che non si stanca, non esita, non prova paura, non ha memoria del dolore e non risponde alle regole non scritte che regolano i rapporti tra esseri umani. In una città popolata da umanoidi, anche la percezione della sicurezza può rovesciarsi: da un lato aumenta il senso di protezione, dall’altro affiora la sensazione di essere osservati da macchine non trasparenti nei loro criteri decisionali. È la soglia, delicatissima, tra tutela e sorveglianza, tra assistenza e controllo.

La dimensione psicologica aggiunge un ulteriore livello di complessità. Il contatto prolungato con agenti artificiali fisicamente credibili incide sui processi di apprendimento emotivo, sulla costruzione dell’empatia, sulla percezione del limite umano. L’imitazione delle espressioni, dei gesti e dei toni della voce può creare un’impressione di familiarità che rischia di confondere la distinzione tra relazioni autentiche e relazioni simulate. Nei bambini e nei giovani, ciò potrebbe tradursi in una difficoltà crescente nel decifrare l’ambiguità, nel tollerare la frustrazione, nel riconoscere la reciprocità affettiva. Negli adulti, invece, gli umanoidi possono generare nuove forme di dipendenza psicologica, soprattutto se collocati in ruoli di cura, accompagnamento o sicurezza. La macchina antropomorfa diventa così un attore sociale sui generis, capace di influenzare comportamenti, stati d’animo e reazioni emotive senza possedere un corrispettivo umano reale.

A tutto ciò si aggiunge il nodo, ormai ineludibile, della governance tecnologica. La possibilità che migliaia di umanoidi vengano schierati in contesti operativi – dalla logistica ai cantieri, fino agli scenari di protezione civile e, potenzialmente, di ordine pubblico o di difesa – solleva interrogativi che il diritto internazionale e i sistemi regolatori non hanno ancora affrontato con decisione. Chi risponde di un errore commesso da una macchina dotata di autonomia motoria e discrezionalità operativa? Quali limiti devono essere posti alla delega della forza fisica? Chi controlla il software, gli aggiornamenti, la rete che collega tra loro centinaia di corpi artificiali capaci di apprendere in sincronia? Quali garanzie possono essere offerte ai cittadini in un mondo in cui la forza pubblica potrebbe essere esercitata da agenti privi di emozioni, di esitazione, di senso del rischio e del contesto umano? Sono questioni che si intrecciano con il dibattito internazionale sulle armi autonome, ma che, con l’avvento degli umanoidi civili, assumono una valenza ancora più ampia e trasversale.

Ciò che emerge, in conclusione, è che l’ingresso degli umanoidi non può essere interpretato come una semplice innovazione: è una vera e propria soglia culturale. Una soglia che attraversiamo senza clamore, quasi senza accorgercene, ma che ridefinisce il modo in cui lavoriamo, viviamo, ci identifichiamo, ci proteggiamo e costruiamo il senso della nostra collettività. La domanda che dobbiamo porci non è se queste tecnologie saranno adottate, perché lo saranno. La domanda è quale orizzonte culturale, etico e istituzionale saremo in grado di costruire attorno a esse. È in questo spazio, ancora aperto, che si gioca il futuro della nostra convivenza con le macchine che hanno assunto forma umana.

Giovanni Di Trapani

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie Giovanni, per la tua sensibilità anticipatoria: non si parla di ciò che sta accadendo, non si parla per contenere in regole specifiche del transumanesimo sempre più spinto, tutto il caos globale distoglie da questo impellente diritto all Umanità da difendere
Anna Passaro