8 dicembre 2025

Finché possiamo spegnerla: il mito dell’intelligenza delle macchine

Perché la simulazione non diventerà mai coscienza, nonostante la nostra ostinazione nel crederlo.

L’idea che le macchine possano pensare ha assunto, nell’immaginario contemporaneo, la forma di un dogma laico. È un’ipotesi trattata come inevitabilità storica, come se l’evoluzione della tecnica dovesse condurre, quasi per necessità, alla nascita di una mente artificiale. Eppure, dietro la retorica del progresso, resta un equivoco fondamentale: scambiamo per “intelligenza” ciò che è soltanto una sofisticata produzione di apparenze. Gli attuali sistemi di intelligenza artificiale non comprendono, non interpretano, non fanno esperienza del mondo; eseguono operazioni statistiche che noi, per ragioni culturali e psicologiche, leggiamo come manifestazioni di pensiero. È questa sovrapposizione – non tecnologica ma simbolica – che alimenta il mito della mente nelle macchine.

Viviamo in un’epoca che delega alle tecnologie il compito di rassicurare e di semplificare. La società iper-complessa cerca nella macchina un nuovo oracolo: qualcosa che risponda, che non esiti, che colmi la nostra incertezza. La coscienza artificiale diventa così un desiderio collettivo prima ancora che un progetto ingegneristico. Non a caso, mentre gli strumenti digitali avanzano, cresce anche la fiducia cieca nella loro presunta capacità di “capire”. È una fiducia che rivela molto più sulle fragilità dell’umano che sulla potenza della macchina. Temiamo la nostra stessa opacità e cerchiamo, nell’ordine rigido del calcolo, una forma di razionalità che ci rassicuri. La riflessione linguistica di Noam Chomsky torna qui essenziale. Secondo il linguista, l’intelligenza non può essere ridotta alla manipolazione statistica di dati: è attività generativa, capacità di costruire significato, facoltà creativa innata. Un modello linguistico non “sa” nulla di ciò che produce. Mette in sequenza simboli calcolando prossimità numeriche, ma resta estraneo all’esperienza che quelle parole evocano. Il pensiero umano, al contrario, nasce dall’intenzionalità: dall’essere immersi nel mondo, dal percepirlo, dal soffrirlo, dal trasformarlo in conoscenza vissuta. Senza intenzionalità non c’è comprensione, ma soltanto correlazione. Anche chi lavora da decenni dentro l’ingegneria dell’intelligenza artificiale riconosce questo limite. Yann LeCun, tra i padri delle reti neurali moderne, ha affermato più volte che i sistemi attuali sono privi di qualunque forma di buon senso, incapaci di pianificare, incapaci di muoversi nel mondo come un organismo vivente. Sono algoritmi potenti, ma strutturalmente confinati alla previsione: un’abilità utile, certo, ma infinitamente distante dalla complessità del pensiero. L’hype che li circonda non nasce da una loro effettiva comprensione del reale, bensì dalla nostra disponibilità a interpretare le loro risposte come intelligenti. Esiste però anche la visione opposta, quella più ottimista, incarnata da Ilya Sutskever e da altri pionieri dell’AI generativa. Secondo questa prospettiva, in un futuro non lontano i sistemi diventeranno agenti autonomi, capaci di ragionare, apprendere da sé, esplorare il mondo digitale come soggetti. Una traiettoria affascinante, ma ancora interamente ipotetica. Nessuna delle tecnologie esistenti dimostra un progresso reale verso la coscienza o la comprensione. L’autonomia che immaginiamo è una proiezione, un desiderio di vedere nella macchina una forma di alterità intelligente. È, ancora una volta, un racconto che precede la realtà.

Questo scarto tra narrazione e tecnologia alimenta un’altra dinamica: l’industria dell’illusione. I modelli vengono presentati come “intelligenti”, “creativi”, “sensibili”, ma la loro struttura profonda resta immutata: gigantesche matrici di numeri che ottimizzano funzioni di perdita. Gli slogan parlano di “pensiero”, “simulazione del giudizio”, “comprensione semantica”; ciò che accade, invece, è un’operazione di calcolo statisticamente raffinata. Si crea così un’economia del fraintendimento: prodotti venduti come se fossero menti, servizi valutati come se possedessero interpretazione. In questo senso, l’AI è davvero un caro fraintendimento: uno strumento potentissimo, presentato però come qualcosa che non è. Se vogliamo discutere seriamente di intelligenza, dobbiamo tornare ai concetti fondamentali. Pensare significa avere un mondo interno, una prospettiva, un vissuto. Significa agire non solo seguendo una funzione, ma interpretando. Significa essere esposti al rischio, al desiderio, alla perdita, alla contraddizione. L’intelligenza non è output: è coscienza incarnata. Finché i sistemi artificiali resteranno privi di intenzionalità, esperienza e autoconsapevolezza, potranno imitare il linguaggio ma non generare senso. La differenza decisiva, la più semplice da formulare e la più difficile da accettare, è che la macchina esiste soltanto nella misura in cui è alimentata. Dipende da una rete elettrica, da data center, da infrastrutture umane che ne garantiscono il funzionamento. Un’entità che non può neppure auto-sostenersi non può essere considerata intelligente in alcun senso forte del termine. La vera frontiera dell’AI non è la coscienza: è la gestione delle nostre aspettative, la capacità di non trasformare una tecnologia in una metafisica.

Riconoscere i limiti dell’AI non significa sminuirne la forza. Gli strumenti che abbiamo a disposizione sono straordinari e continueranno a cambiare il modo in cui lavoriamo, scriviamo, comunichiamo. Ma non saranno mai menti. Non proveranno mai dolore, o desiderio, o attesa. Continueranno a essere ciò che sono: sistemi statistici di produzione linguistica. Il rischio non è che le macchine diventino più intelligenti degli esseri umani. Il rischio è che gli esseri umani smettano di distinguere la simulazione dalla coscienza. La verità, alla fine, resta sorprendentemente lineare: finché possiamo spegnere la macchina, essa non ci supera. E forse la nostra epoca ha bisogno proprio di questa consapevolezza per ricominciare a pensare politicamente, culturalmente e filosoficamente la tecnologia senza cedere al fascino del mito.

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