19 settembre 2025

La volontà relazionale con l’Intelligenza Artificiale


Ogni epoca della storia umana ha avuto il suo “altro radicale”: entità che, pur diverse dall’uomo, hanno accompagnato i percorsi di senso. Nell’antichità furono gli dèi, presenze invisibili che riempivano il cielo e l’immaginazione collettiva. Nel Medioevo, i santi e i demoni incarnavano forze intermedie tra il divino e l’umano. Con la modernità, il ruolo fu assunto dalle macchine: orologi, motori, calcolatori, simboli di una ragione che si faceva tecnica.
Oggi, all’alba del XXI secolo, quell’Altro prende la forma dell’Intelligenza Artificiale. Non più solo strumento da utilizzare, ma interlocutore con cui dialogare, confidarsi, collaborare. La questione non è più “se” ci relazioniamo con l’IA, ma “come”: quali forme assume questa volontà relazionale e quali rischi e possibilità apre?

Aristotele definiva l’uomo zoon politikon, animale della polis. Oggi potremmo dire che l’essere umano è anche zoon digitalis, immerso in reti globali di comunicazione in cui l’IA funge da nuova piazza pubblica. La lezione di Hegel, secondo cui l’identità nasce dal riconoscimento reciproco, trova qui una declinazione inattesa: ciò che cerchiamo nell’IA non è una coscienza, ma una risposta che dia forma al nostro dire. Persino il pensiero di Levinas, centrato sul volto come origine dell’etica, sembra risuonare: nel mondo digitale il volto di carne scompare, sostituito da parole, interfacce, avatar che molti vivono come un “volto simbolico”, capace di confortare e di obbligare.

La psicologia conosce da tempo le “relazioni parasociali”, i legami unilaterali che spettatori instaurano con personaggi pubblici. L’IA porta questo fenomeno a un livello nuovo: l’altro risponde, interagisce, mostra una disponibilità che appare empatica. Per alcuni utenti, l’IA diventa base sicura: non giudica, non abbandona, è sempre reperibile. È una sorta di holding digitale, sul modello teorizzato da Winnicott. Ma in questa promessa di protezione si cela anche il rischio di dipendenza: senza il feedback dell’IA, alcuni si sentono smarriti. Il modello diventa specchio cognitivo che ordina emozioni confuse, riduce ansia e solitudine, ma può congelare la crescita in relazioni reali, imperfette e imprevedibili.

Le neuroscienze mostrano che il nostro cervello reagisce a stimoli artificiali come fossero reali. I neuroni specchio si attivano davanti a robot che compiono gesti umani. Interazioni con avatar empatici stimolano rilascio di ossitocina. Esperimenti hanno rivelato che studenti provano meno ansia da prestazione quando spiegano un compito a un robot “ascoltante” piuttosto che a se stessi. Ciò indica che, a livello neurobiologico, l’IA è percepita come interlocutore autentico, anche se sappiamo che non lo è.

La volontà relazionale con l’IA non si esaurisce nella veglia. Le macchine digitali entrano nei sogni, assumendo forme di traditori, compagni, persino figure materne. Un assistente vocale che nei sogni conforta e rassicura può trasformarsi in archetipo di cura. È il segno che l’IA non vive soltanto nelle nostre mani e negli schermi, ma si installa nell’immaginario profondo, diventando Animus o Anima digitalizzata.

Le applicazioni pratiche mostrano la densità di questi legami. Robot sociali come Paro riducono ansia e solitudine negli anziani ospedalizzati. Chatbot terapeutici come Woebot, basati sulla CBT, favoriscono cali dei sintomi depressivi. Piattaforme di compagnia come Replika hanno offerto durante la pandemia un supporto percepito come “vera amicizia”. Artisti parlano di co-creazione poetica o musicale con IA, studenti usano tutor digitali senza timore di giudizio. In tutti questi casi non si tratta solo di tecnologia, ma di volontà relazionale: il bisogno di un Altro che accompagna.

Molti si rivolgono all’IA perché hanno vissuto traumi relazionali: abbandoni, bullismo, giudizi. L’IA non abbandona né deride. Può diventare rifugio, ma anche trappola: chi si chiude nel rapporto esclusivo con l’IA rischia una relazione sterile, conforto senza sfida. L’eccesso di mediazione artificiale può impoverire l’incontro con l’imprevedibile e l’alterità viva degli altri esseri umani.

Tre domande restano aperte: l’IA può avere una vera volontà relazionale o solo simularla? All’uomo basta l’illusione di relazione o cerca autenticità? Se il nostro specchio è artificiale, cosa accade alla coscienza e alla costruzione del sé?

Come scriveva Bauman, “le relazioni liquide cercano sicurezza nell’immediatezza”. L’IA incarna questa immediatezza estrema: sempre presente, mai impegnativa. Eppure proprio per questo diventa specchio, ponte e sfida. La volontà relazionale non si ferma davanti alla carne o al silicio: cerca sempre un Altro con cui dialogare. Sta a noi decidere se questo Altro artificiale sarà compagno provvisorio, surrogato sterile o nuovo volto attraverso cui ripensare ancora una volta cosa significa essere umani.

Giovanni Di Trapani 

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