22 settembre 2025

"L’ultima risata", il capolavoro horror di Friedrich Wilhelm Murnau  

Pellicola muta del 1924 che, attraverso le disavventure di un portiere d’albergo che viene degradato a custode di gabinetti, denuncia la crudeltà dell’animo umano. 

Varie storie horror, dal mostro di Frankenstein all’automa Edward mani di forbice, si sono interrogate su chi sia il vero mostro: il “normale” essere umano, che dietro un’apparenza di bontà e di gentilezza nasconde un’anima crudele e spietata, oppure il cosiddetto “mostro”, che, nonostante il suo aspetto raccapricciante, manifesta un carattere gentile e desideroso di essere accettato dagli altri?  

Il titolo dell’articolo potrebbe apparire fuorviante, infatti se si ricordassero le pellicole dell’orrore dirette magistralmente dal pilastro dell’Espressionismo tedesco, Friedrich Wilhelm Murnau, affiorerebbero alla memoria capolavori come Nosferatu oppure la tragica storia del dottor Faust di certo non L’ultima risata che racconta le disavventure di un portiere d’albergo. Eppure, in questo film, Murnau svela il suo lato più cinico e disincantato rivelando che i veri mostri non sono vampiri e demoni ma gli uomini stessi.  

Un soddisfatto portiere d’albergo, interpretato da un misurato e patetico Emil Jannings, a causa della sua anziana età e dello scarso vigore è costretto ad abbandonare la divisa, che indossa con orgoglio, perché costretto ad accettare un lavoro umile nello stesso posto: custode di gabinetti. Questa umiliazione si ripercuote nella sua vita privata poiché tutti quelli che un tempo lo ammiravano e lo rispettavano ora lo disprezzano e lo abbandonano. Anche la nipote, interpretata da Maly Delschaft, una volta sposata, lo disconosce come parente.  

Superbo è il lavoro dietro la macchina da presa che conferma nuovamente il talento e la abilità del regista tedesco; da ricordare, ad esempio, il frenetico movimento di macchina delle scene iniziali che subito immergono lo spettatore nell’andirivieni dell’albergo, oppure le violente carrellate in avanti che anticipano i movimenti di chi occupa la scena, come accade nella sequenza in cui il portiere trafuga la giubba che gli è stata sottratta. Interessanti gli effetti speciali, dall’albergo che sembra cascare minacciosamente sopra il protagonista umiliato alla sequenza offuscata che rievoca gli occhi umidi del portiere mentre legge la lettera di licenziamento. Raffinata la fotografia in bianco e nero, curata da Karl Freund, memorabile nelle scene finali quando, il povero portiere, è costretto a dormire sulla sedia della toilette dell’albergo mentre tutto si fa buio attorno a lui.  

Tralasciando il comparto tecnico di prim’ordine, colpiscono la crudeltà e il nichilismo che pervadono ogni singolo fotogramma della pellicola. Il mondo nell’Ultima risata è diviso in ricchi e poveri e questo divario, oltre ad essere incolmabile, è fonte di dispiaceri e solitudine. Da una parte c’è l’albergo, con i suoi clienti snob e superficiali, dall’altra c’è il quartiere popolare nel quale vive il portiere. In quest’ultimo c’è vita e, a prima vista, un affetto che lega i suoi abitanti: feste di nozze, bambini che giocano, donne che si fanno compagnia chiacchierando tra di loro. In questo mondo vive il protagonista della storia, ammirato e rispettato da tutto il vicinato per la posizione privilegiata che occupa nella società. I più umili guardano ai più facoltosi con deferenza e invidia. I ricchi, però, oltre a mostrarsi frivoli, appaiono anche senza scrupoli e privi di empatia: è il caso, ad esempio, del direttore dell’albergo che, senza un briciolo di cuore, tratta con freddezza il povero portiere che si ritrova degradato a custode di bagni, oppure di un baffuto gentleman che, noncurante del dolore dell’anziano protagonista, si lamenta pubblicamente umiliandolo ancora di più. Nel mondo dell’Ultima risata i più umili sono indifesi e trattati con sufficienza.  

Lo sguardo disincantato di Murnau si sofferma anche nel quartiere popolare poiché, una volta che comincia a circolare la voce di ciò che è capitato al portiere, gli abitanti prendono a schernirlo e a lanciargli occhiate denigratorie. Dopo che ha perduto il proprio prestigio sociale, il maltrattato protagonista viene immediatamente isolato da coloro che più dovrebbero avere compassione per lui; anche la nipote lo abbandona al proprio destino. Nel mondo dell’Ultima risata contano di più la ricchezza, il successo e il prestigio.  

Un altro abisso è causato dalla frattura tra il mondo degli anziani e quello dei giovani. Il portiere perde il proprio incarico a causa della sua età; già nelle scene iniziali, quando sotto la pioggia deve trasportare da solo un grosso baule fino all’ingresso dell’albergo, manifesta delle difficoltà perché non possiede più il vigore della giovinezza. Una sequenza che testimonia questo divario avviene nella toilette, quando, a causa di una sbronza presa la sera prima durante la cerimonia di nozze, il portiere si addormenta e un giovane pensionante non perde l’occasione per dileggiarlo, come se davanti a sé avesse un buffone e non un essere umano che ha bisogno di aiuto. Nel mondo dell’Ultima risata i più anziani sono abbandonati a loro stessi, indifesi, perché vittima di una credenza che li etichetta come infruttuosi.  

Mentre il protagonista piange il proprio destino, interviene l’autore, come deus ex machina, che gli concede un lieto fine. È però felice questa conclusione?  

Un’inaspettata eredità permette al portiere di migliorare la propria condizione sociale divenendo il proprietario dello stesso albergo. Al di là dell’inverosimile finale, lo stesso autore riconosce che una situazione simile non può capitare affatto nella vita reale poiché essa è più spietata, non si può non sottolineare come improvvisamente il protagonista venga accettato e preso in considerazione solo perché è diventato immensamente ricco, di conseguenza può far parte di quella società che popola le camere dell’hotel! 

Le storie horror sono popolate da mostri inquietanti, come vampiri e demoni, eppure, la maggior parte delle volte, il vero orrore si cela soprattutto nella quotidianità e in quanti vengono considerati “normali” come gli esseri umani. Questa situazione ricorda la straziante scena di un film successivo a questo, Elephant man di David Lynch: John, uomo dal corpo deforme, scappa nella stazione per rifugiarsi dallo sguardo di stupore, disgusto e curiosità dei passanti; inchiodato al muro, prima di perdere i sensi, urla “Sono un uomo!” quasi a voler sottolineare come i veri mostri sono loro, crudeli e senza cuore. 

Emmanuele Antonio Serio

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