14 ottobre 2025

La cassaforte digitale e il peso della memoria

C’è una memoria che continua a gravare come un macigno sulla coscienza dell’Europa e dell’Occidente: quella della Shoah. Lo sterminio degli ebrei d’Europa non è solo un fatto storico, ma un trauma che ha plasmato il modo in cui gli Stati si relazionano con Israele, la nazione sorta anche come risposta a quell’orrore. Il “mai più” ha avuto un significato morale e politico: garantire la sopravvivenza di uno Stato che rappresentasse un rifugio per il popolo ebraico. Ma da allora quel legame, nato dal dovere della memoria, ha assunto forme inattese, fino a trasformarsi oggi in una dipendenza che non riguarda più solo la storia, ma la tecnologia e la sicurezza.

Israele ha saputo, con straordinaria lucidità, costruire un ecosistema unico: il connubio tra università, esercito e servizi segreti ha generato un’industria dell’hi-tech che non conosce eguali. Non si tratta semplicemente di innovazione informatica: si tratta di architetture invisibili che custodiscono i dati, le comunicazioni, le vulnerabilità stesse dei governi occidentali. Software come Pegasus, capace di trasformare un cellulare in una cimice digitale, o sistemi forensi come quelli di Cellebrite, utilizzati in Italia nelle procure per estrarre prove da dispositivi sequestrati, sono strumenti che rivelano il rovescio della modernità: chi protegge può, al tempo stesso, spiare.

È in questa ambiguità che si annida il potere della “cassaforte digitale” israeliana. Non è necessario che venga esercitato apertamente. Basta la consapevolezza che potrebbe esserlo, e già i governi occidentali arretrano, modulano le parole, rinunciano a critiche dirette. Così, mentre le immagini di Gaza sconvolgono le coscienze e sollevano domande scomode, le cancellerie tacciono o balbettano formule diplomatiche. La ragione non è solo geopolitica: è psicologica. È la sensazione di essere ostaggi, di sapere che i propri sistemi di sicurezza dipendono da chi, in teoria, potrebbe conoscerne i punti deboli. Il Mossad e l’Unità 8200 incarnano questo intreccio tra intelligence e impresa. Non sono solo centri di spionaggio, ma fucine di competenze da cui nascono startup e multinazionali. In questo intreccio, il confine tra difesa e sorveglianza si fa evanescente: ciò che viene venduto come sicurezza nazionale è, di fatto, un sistema di controllo globale. E l’Occidente, Italia inclusa, non ne è solo cliente, ma parte integrante, accettandone le condizioni implicite di dipendenza.

Qui si tocca il punto più delicato: la sudditanza psicologica. Essa nasce dall’intreccio di due fattori: il debito morale della storia e la dipendenza tecnologica del presente. Il primo impedisce critiche aperte per non sembrare ingrati verso la memoria della Shoah; la seconda impone cautela perché nessuno vuole sfidare chi custodisce le chiavi delle proprie reti digitali. È un doppio vincolo che riduce la libertà politica a una forma di autocensura sistematica. La domanda, allora, non è solo geopolitica ma esistenziale: quanto siamo ancora padroni della nostra sovranità? Quando le procure italiane, i ministeri europei, le agenzie NATO utilizzano strumenti costruiti altrove, chi controlla chi? E quando la memoria diventa scudo, fino a impedire di guardare con lucidità alle conseguenze delle guerre e delle crisi umanitarie, non rischiamo di trasformarla in un fardello che paralizza il pensiero critico?

L’Occidente deve a Israele il rispetto della storia, ma non può confondere memoria con subordinazione. Onorare le vittime della Shoah significa anche difendere i principi di libertà, autonomia e giustizia. Lasciarli cadere in nome di una cassaforte digitale, o di un timore simbolico, sarebbe il modo più insidioso di tradire quella memoria.

Giovanni Di Trapani

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