17 febbraio 2024

Come gli dei diventano Dio: un approccio storico alla nascita delle religioni

Nel suo fondamentale Trattato di Storia delle Religioni (1976, Bollati Boringhieri), Mircea Eliade, storico delle religioni, filosofo e tra i più influenti intellettuali del secolo scorso, afferma che la «storia delle religioni è in gran parte una storia delle svalorizzazioni e rivalorizzazioni del processo di manifestazione del sacro».
Tuttavia, il tentativo di coniugare l’idea di un a priori universale, di una realtà ontologica assoluta e globalmente condivisa (l’esperienza del sacro appunto) con un sistema di conoscenze a posteriori quale quello assunto dalla prospettiva storico-religiosa, pone davanti una serie di problematiche di non poco.
Innanzitutto, di cosa si parla quando si parla di religione?

La risposta non è immediata. In effetti, sia nelle lingue dei popoli primitivi che in quelle delle civiltà arcaiche, manca qualsiasi termine che possa equivalere all’uso corrente della parola “religione”, e lo stesso latino classico religio sembrerebbe indicare piuttosto atteggiamenti o comportamenti religiosi – interdizioni, timori, un certo tipo di tradizioni – e non “la religione” comunemente intesa.
Un possibile tentativo di perimetrare i confini di ciò che è “religione” ci viene offerto da Angelo Brelich, antropologo e storico delle religioni ungherese naturalizzato italiano.
In Introduzione alla storia delle religioni (1966, Ediz. dell’Ateneo) Brelich sostiene che:

noi possiamo chiamare religioni quei complessi d’istituzioni, credenze, azioni, forme di comportamento e organizzazioni… mediante cui singole società umane cercano di regolare e tutelare la propria posizione in un mondo inteso essenzialmente come non-umano.  

Una contrapposizione dunque. Un rapporto non vicendevole tra l’essere umano è un’alterità sconosciuta, alla quale si attribuisce forza e potenza e che si cerca di accattivare in qualche modo. Ma anche questa definizione, per quanto all’apparenza convincente, rischia di trascurare un aspetto di grande rilevanza.
Non bisogna dimenticare, infatti, che per buona parte della sua esistenza l’umanità ha vissuto in una sorta d’inscindibilità cosmica con l’elemento divino, il quale ne regolava praticamente ogni aspetto.
Si pensi ad esempio alle innumerevoli forme di divinazione esistenti già tra l’VIII e il X secolo a.C , dall’I-Ching cinese fino all’oracolo di Delfi, o alla pratica del sorteggio, dove la casualità del risultato era interpretata come volere degli dei. Per molto tempo, la dimensione extra-umana ha permeato ogni ambito della sfera privata e pubblica, e nessuna scelta era compiuta senza che essa non venisse chiamata in causa.
È solo a partire dal IV-V secolo a.C e in una società avanzata come quella della Roma repubblicana, che comincia a prendere corpo quell’idea secondo cui vi sono campi dell’attività umana – la guerra, l’esercizio della giustizia, le elezioni dei rappresentanti politici – in cui l’intervento divino non solo non è richiesto, ma neppure auspicabile.
Ciononostante, per quanto l’idea di “religione” intesa come semplice prodotto storico rischi di sembrare alquanto limitativa, essa ha tuttavia il vantaggio di offrire una più solida base d’indagine metodologica rispetto al tentativo, peraltro difficilmente praticabile, di collocare nel tempo la comparsa di una coscienza religiosa intesa come esperienza del sacro.
Perdipiù, se da una parte sembra ormai innegabile che anche per quelle culture impropriamente dette “primitive” esisteva un qualche tipo di ritualità condivisa (si vedano, a tal proposito, gli straordinari esempi d’inumazione funeraria ritrovati nella cava di Qafzeh, in Israele, o le enormi costruzioni megalitiche nel sito archeologico di Göbekli Tepe, in Turchia), dall’altra l’assenza di testimonianze scritte preclude la possibilità di attribuire a tali espressioni cultuali l’idea di religione nei termini appena indicati.
Come osservava lo storico delle religioni Dario Sabbatucci parlando di «vanificazione dell’oggetto religioso», ogni osservatore esterno è, in quanto tale, portatore di una categoria (e generalmente di una categoria di stampo marcatamente occidentale) sicché in assenza di valide prove documentali il rischio d’indebite attribuzioni o generalizzazioni sarebbe troppo alto.

Göbekli Tepe
Un’immagine di Göbekli Tepe, vicino Şanlıurfa, nell’odierna Turchia.

Fatte queste doverose premesse, analizzeremo ora due tra le principali forme di culto – la politeista e la monoteista – cercando di seguirne il loro sviluppo nel corso del dipanarsi storico.
È opinione comune che il politeismo, nelle sue numerose declinazioni, sia la pratica cultuale tipica delle cosiddette civiltà superiori. Ciò non sorprende se si considera un’epoca – quella arcaica – in cui la techne non appare ancora come elemento dominante nella vita dei popoli, un’epoca in cui la presenza di una pluralità di dei è tanto funzione di ciò che nell’esperienza reale appare al di fuori del controllo umano, quanto espressione di una varietà d’interessi e bisogni tipici di una società articolata.
E così, già nell’antica Mesopotamia (ca. III millennio a.C.), è possibile riconoscere un pantheon di divinità le cui caratteristiche riflettono quella delle forze naturali: Anu, il dio del cielo, Enlil, il dio del vento, e Enki, il dio delle acque, formano una triade cosmica che si contrappone ad un’altra, cosiddetta astrale, composta dal dio-luna Sin, dal dio-sole Shamash e dalla dea Ishtar, simboleggiata da una stella e messa in rapporto con il pianeta Venere. Ma anche in Egitto, dove la cultura mesopotamica venne dapprima assimilata e in seguito riproposta in veste rinnovata, lo stesso istituto faraonico, considerato come emanazione vivente del dio-falco Horus, conviveva con una tradizione cosmogonica in cui il dio Atum o Aton, dio primordiale e unico esistente in principio, procrea da solo la coppia divina Shu (aria) e Tefnut (elemento umido), da cui nascono il dio-terra Geb e la dea-cielo Nut.
Ed è proprio all’Egitto che bisogna volgere lo sguardo per tentare di comprendere come nel corso del tempo il politeismo abbia, almeno in una certa parte di mondo, ceduto il passo al culto del Dio unico.
La differenziazione tra le varie figure divine tipica di ogni cultura politeistica è qui continuamente minacciata da una particolare tendenza alla teocrasia, e cioè alla fusione di più entità divine in una sola. Senza questa tendenza difficilmente si sarebbe verificata quella che gli storici definiscono come la “riforma monoteistica di Amenhotep IV”, la quale rappresenta ancora oggi un unicum in tutto il panorama storiografico.
Secondo la datazione ufficiale, tra il quarto e il sesto anno di regno (ca. 1249-1247 a.C), il faraone Amenhotep IV, in totale rottura con i sacerdoti del dio Amon-Ra, si fece promotore di una rivoluzione religiosa senza precedenti. In preda ad una vera e propria follia iconoclasta, Amenhotep IV dichiarò Aton l’unico vero Dio, cambiò il proprio nome in Akhenaton (“colui che piace ad Aton”), privò i templi delle divinità tradizionali dei loro finanziamenti, abolì gl’idoli raffiguranti divinità animali e propose un modello religioso i cui aspetti ricordano molto da vicino quelli di un monoteismo ante-litteram.

Tu hai creato la terra secondo il tuo desiderio, essendo solo, gli uomini, il bestiame, gli animali,
tutto ciò che sulla terra si muove sulle sue zampe
e tutto ciò che vola nell’aria con le sue ali,
i paesi stranieri di Kharu e Kush e la terra d’Egitto.
Tu collochi ogni uomo al suo posto e provvedi ai suoi bisogni,
avendo ognuno il suo nutrimento, e la durata della sua esistenza è calcolata.
Le lingue sono diverse nelle parole, e anche i loro caratteri.
La loro pelle è diversa, poiché tu hai differenziato i popoli stranieri 

 

Una statua raffigurante il faraone Akhenaton

In uno sviluppo piuttosto articolato di questa vicenda, Sigmund Freud, nel suo celebre saggio L'uomo Mosè e la religione monoteistica, arrivò addirittura a suggerire che il Mosè della Bibbia altri non sarebbe in realtà che un sacerdote del culto di Akhenaton fuggito dall’Egitto alla morte del faraone, e che una volta giunto in terra di Canaan, nell’odierna Palestina, si sarebbe messo in contatto con le popolazioni semitiche locali diffondendo l’antico culto a tutto il popolo ebraico.
Questa ipotesi, suggestiva sotto molti aspetti, viene però ad oggi rigettata dalla maggior parte degli studiosi in quanto priva di attendibilità storica, soprattutto alla luce della feroce condanna postuma cui furono soggetti Akhenaton e sua moglie, la leggendaria Nefertiti, una damnatio memoriae che culminò con la distruzione di quasi tutti i documenti e i monumenti a lui dedicati e con la restaurazione da parte del faraone Horemheb, ex generale di Akhenaton prima e di Tutankhamon poi, dell’antico culto del dio Amon.
Vi è poi una seconda teoria – decisamente più convincente della prima dal punto di vista delle fonti – che vede invece nella diaspora degli Ebrei dall’Egitto e nelle numerose dominazioni straniere, un elemento propulsore cruciale per la nascita e lo sviluppo del monoteismo ebraico.
L’evento che viene qui chiamato in causa è la progressiva perdita da parte dell’Egitto della sua sfera d’influenza sulla valle del Giordano, fenomeno che gli studiosi hanno messo in relazione con quel fondamentale periodo storico, per gran parte ancora oscuro, che va sotto il nome di “collasso dell’età del bronzo”, una lunga fase durata oltre due secoli e caratterizzata dal progressivo crollo delle autorità centrali, da un generale spopolamento delle aree altamente urbanizzate e dalla perdita dell'alfabetizzazione in Anatolia e nell'Egeo.
In questo scenario, s’ipotizza che le piccole realtà urbane un tempo schiacciate dal giogo faraonico abbiano cominciato lentamente a riorganizzarsi e a dotarsi di una propria autonomia. Arrivati a Canaan, gli Ebrei si sarebbero quindi stanziati in un territorio già densamente popolato da comunità di ceppo semitico, ma alquanto diverse per cultura e tradizioni.
A questo proposito, Brelich fa notare come:

l’immigrazione in un paese caratterizzato da forme culturali diverse, le assimilazioni di queste forme e le inevitabili mescolanze etniche, avrebbe potuto condurre all’adattamento degli Ebrei alla religione della nuova patria. Se ciò non è avvenuto, almeno non in maniera decisiva, vuol dire che gli Ebrei avevano già nel periodo dell’immigrazione una tradizione religiosa propria sufficientemente solida per esser conservata e contrapposta al politeismo trovato sul posto.

È dunque certamente possibile che le primitive forme di culto di questi pastori semi-nomadi fuggiti dall’Egitto sia col tempo mutata, passando da un’iniziale fase monolatrica-enoteistica (e cioè da una forma di culto caratterizzata dalla preminenza di un Dio su tutti gli altri, senza che venga però negata l’esistenza di altre divinità) ad un monoteismo vero e proprio, precisamente nel contatto con i politeismi locali cui si opponeva.
Ma tornando alle vicende storiche, la necessità di fronteggiare le bellicose popolazioni locali spinse gli Ebrei a dotarsi di una struttura sociale più centralizzata. Inizialmente, i singoli gruppi tribali, largamente autonomi, erano uniti in specie di ampia confederazione che l’ebraista Martin Noth ha giustamente paragonato alle anfizionie greche. Ma con l’aumentare delle pressioni esterne, soprattutto quelle ad opera dei Filistei, questo assetto mutò gradatamente assumendo via via la fisionomia di un vero e proprio regno – il regno d’Israele.
In seguito, dopo la morte di re Salomone (ca. 931. a. C), il neonato regno d’Israele, divenuto ormai potenza dominante nel Canaan, si divise in due tronconi indipendenti: un regno del Nord, con capitale Samaria, e uno del Sud, il regno di Giuda, con capitale Gerusalemme.
Questa divisione, risalente secondo la Bibbia a dissidi di natura religiosa, aveva in realtà motivazioni economiche: il regno del Nord era molto più ricco, caratterizzato da terreni fertili e aperto agli scambi con le vicine popolazioni mesopotamiche, mentre quello del Sud, assai meno popoloso, era al contrario assai più povero e insediato in un territorio aspro, contraddistinto da alture e montagne poco coltivabili.

La divisione del regno d’Israele alla morte di Re Salomone

Più tardi, con la caduta del regno d’Israele e la deportazione degli abitanti per mano dell’esercito di Sargon II (722 a.C), i pochi sopravvissuti rimasti cominciarono a migrare verso il regno del Sud, formalmente indipendente dall’impero Assiro, diventando in breve tempo un’entità politica sempre più rilevante nel mediterraneo orientale. Questa prima massiccia migrazione ebbe delle importanti conseguenze non soltanto sotto il profilo demografico, ma anche su quello culturale, la più rilevante delle quali fu lo sviluppo della pratica scribale (fino ad allora poco rappresentata nel più arretrato regno di Giuda) e la stesura di un primo un corpus di leggi che gli studiosi identificano con il nucleo dell’attuale Deuteronomio.
Analogamente, la seconda migrazione, quella Babilonese – che vide la deportazione in massa delle classi dirigenti e che durò dalla presa di Gerusalemme da parte delle truppe di Nabucodonosor II nel 587 a.C , fino alla conquista di Babilonia da parte dei persiani di Ciro nel 539 a.C – segnò un ulteriore punto di svolta nella storia ebraica. Sempre Brelich sottolinea come:

mentre la popolazione rimasta in Palestina, priva dei suoi dirigenti e della sua indipendenza, rischiava di venir riassorbita nell’ambiente cui fino ad allora si era contrapposta con la propria coscienza nazionale e religiosa, gli esuli, venuti a contatto diretto con la civiltà babilonese dell’epoca e con l’ambiente etnicamente e culturalmente misto della metropoli mesopotamica, trovarono la forza di rinsaldare la propria fede, anche se non rimasero completamente immuni dagli influssi stranieri. Liberati da Ciro, essi poterono ritornare in patria e lì procedettero ad una rigorosa restaurazione religiosa

Appare dunque evidente come l’insieme di queste complicate vicissitudini storiche abbia contribuito a rinfocolare nel popolo Ebraico l’idea di un nazionalismo panisraelitico in cui gli abitanti d’Israele e di Giuda si riconoscevano come membri di un’unica nazione, e a creare altresì quell’immagine di un Dio non universale, ma impegnato nel destino del suo popolo, da cui il suo carattere personale, geloso, vendicativo e spesso iroso che non si spiegherebbe in un’entità assoluta e imparziale.
Eppure, nemmeno il monoteismo ebraico fu immune da ingerenze. Numerosi studi di religione comparata testimoniano infatti come durante la dominazione persiana, lo zoroastrismo, al tempo assai diffuso nelle regioni iraniche e dell’Asia centrale, abbia influenzato diversi aspetti della tradizione escatologica e soteriologica ebraica, tra cui l’idea di un giudizio finale, l’attesa di un Messia e la promessa della resurrezione dei corpi.

Sacrifichiamo all’eccelso Hvarenah, la gloria sacerdotale, che è opera di Mazda, che si congiungerà al vittorioso Saoshyant e i suoi ausiliari, quando egli restaurerà il mondo, che da allora in avanti non invecchierà e non morirà mai… quando giungerà la fine, quando la vita e l’immortalità arriveranno, e il mondo sarà restaurato a sua volontà

Aspetti della teologica mazdea si perpetreranno poi anche nella letteratura apocalittica cristiana, arrivando a contaminare perfino l’ambiente ecclesiastico. È il caso di certe figure angeliche quali ad esempio i cherubini, in origine dei alati con testa d’uomo e corpo di toro (o di cavallo), o dello stesso Diavolo, percepito tanto potente da apparire in certi casi quasi come un dio del male, immortale anche se vinto, come Arimane, spirito malvagio e distruttore, ribellatosi all’autorità di Ahura Mazda e da questi incatenato e sconfitto nella grande battaglia finale assieme alla sua schiera di demoni, i daēva.

Simbolo di Ahura Mazda

In definitiva, il concetto di religione è un prodotto storico complesso e stratificato, frutto di tradizioni e costumi che s’incontrano e si compenetrano, talora fondendosi, altre volte dando vita a forme di culto del tutto nuove. Non un dato di fatto dunque, o una sorta di archetipo esistente ab origine, ma un processo di creazione continua, il quale non può prescindere dalla cornice storico-geografica da cui trae origine.
Ridimensionare “la religione”, relativizzarla, rilevare quegli elementi universali e ricorrenti propri di ogni società organizzata, è dunque l’unico modo per liberarci dal giudizio e dal posizionamento in una scala di valori assoluti.
Un’impostazione di questo tipo potrebbe gettare le basi per un nuovo tipo umanesimo in cui ogni espressione culturale gode di pari dignità, nella consapevolezza che nessuna ricerca storiografica, per accurata che sia, potrà mai dare conto di quel bisogno tipicamente umano di cercare risposte al mistero dell’esistenza.

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