Sento ancora lo sciabordio lento e inesorabile delle algide acque. La notte nera e silenziosa si staglia sulla superficie lucida di un gigante di ghiaccio. È lui il vero titano. Ha reso ridicola la presunzione dell’uomo, rimasta irretita nelle strette maglie dell’orgoglio ferito. E tale orgoglio non può avere che un nome, destinato a diventare leggenda, condannato a mutarsi in un mito dal sapore drammaticamente doloroso: Titanic. È l’aprile del 1912. Primavera, una primavera calma, contenuta, testimone di una storia nota, che si ammanta, nel ricordo collettivo, di tragicità e segna la fine di un’età luminosa, presto ottenebrata dall’incedere mortifero della prima guerra mondiale. La Belle Epoque ha indotto alla speranza, ha illuso con il luccichio delle sue vetrine, le gonne corte e leggere, la sognante incredulità del cinematografo, i boulevard affollati. La Belle Epoque, nella sua smania di ottimismo, ha siglato la sua maestosa fama con il sigillo di una nave considerata inaffondabile, che reca nel suo stesso nome l’ambizione dei suoi costruttori: il Titanic. E’ qui che comincia la nostra storia.