Il tempo di un Paese e dei suoi abitanti, dunque - nonostante la presunta globalizzazione e gli scambi incessanti tra i popoli - rimane ancora ancorato a quello che è lo stadio evolutivo, piuttosto che alla sua peculiarità etnica. Per cui la concezione temporale non potrà uniformarsi a quella dominante sul pianeta se anche il linguaggio non avrà compiuto una sua lenta, ma inesorabile, evoluzione (o involuzione).
Non esiste uno spazio vuoto. Etere, muri di città, strade: nulla respira. Nella nostra società del consumismo siamo saturi di messaggi, siamo bersagliati da informazioni che spesso non hanno consapevolezza in noi. È un bene tutto ciò? Ecco una delle domande che si pone l'autore di questa raccolta di articoli rielaborati e già pubblicati dal «Corriere della Sera». Viviamo in una società in cui 'la (in)civiltà del rumore', come recita il sottotitolo, è pregnante, assuefacente. Politica, letteratura, arte, moda, siamo assuefatti dalle novità, dall'originalità a tutti i costi e non c'è più spazio per lo stupore. Una pioggia battente e costante che scivola sulla nostra pelle di plastica. L'inquinamento prodotto da notizie-proiettili che non riusciamo a schivare e che ormai ci vedono impermeabili, il rumore fastidioso quanto orripilante che coinvolge tutti i nostri sensi, ecco cosa ci resta di questo bombardamento.